La spinta che manca al reddito di cittadinanza*

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Bollettino ADAPT 15 novembre 2021, n. 40

 
È difficile negare che il reddito di cittadinanza sia uno dei provvedimenti più discussi degli ultimi anni. Il documento diffuso dal Comitato scientifico voluto dal Ministero del lavoro per analizzarne l’andamento e le criticità è una summa di molti dei problemi emersi negli anni. Pubblicato con un tempismo curioso, in contemporanea con la chiusura da parte dell’esecutivo della Legge di bilancio che contiene già le proposte di modifica del governo, il testo è interessante da diversi punti di vista e consente alcune riflessioni. In particolare vengono riportati alcuni numeri aggiornati al 30 settembre 2021 dai quali è possibile capire le difficoltà in cui versa la seconda gamba del reddito di cittadinanza, quella connessa all’attivazione nel mercato del lavoro di una parte delle persone che lo percepiscono. Infatti dai numeri emerge come su 1 milione e 109mila i beneficiari soggetti alla firma del Patto di servizio con un Centro per l’impiego solo 420.689 (il 37,9%) sono stati presi effettivamente presi in carico da CPI e di questi solo 92.029 hanno svolto successive attività di politica attiva, di cui la quasi totalità (89mila) ha svolto attività di orientamento, circa 4.000 attività di formazione e circa 2.250 hanno utilizzato l’Assegno di ricollocazione. Numeri che sembrano certificare il fallimento della seconda gamba del reddito che, ricordiamo, è sempre stata presentata come parte integrante del provvedimento e non un accessorio come spesso oggi viene presentata, tanto da essere definita come una “misura fondamentale di politica attiva” nella legge che la istituisce.
 
La relazione del Comitato scientifico segnala la gravità di questi numeri e allo stesso tempo sembra in parte spiegarli con i problemi legati alla definizione di “offerta di lavoro congrua”, con la presenza di pochi posti di lavoro nei settori, quelli a minor livello di qualifica, in cui sarebbero occupabili i percettori del reddito e con il fattore pandemia che di certo ha rallentato il mercato del lavoro negli ultimi trimestri. Elementi che sicuramente concorrono a spiegare i risultati ma che non sembrano sufficienti a giustificare numeri così bassi. In particolare questi dati e l’analisi che ne viene fatta pare tradire una idea di politiche attive ancora molto legata al trovare un lavoro alle persone disoccupate. Obiettivo che è di certo la meta finale ma che spesso, e ancor più per persone con livelli di istruzioni bassi ma disponibili al lavoro, richiede almeno un periodo di riqualificazione se non di formazione tout court per poter accrescere il proprio livello di occupabilità.
 
Che solo 4 mila beneficiari su oltre un milione abbiano concluso un percorso formativo ad hoc dice molto sulle condizioni del sistema di politiche attive in Italia. Perché se da un lato è corretto rifiutare le interpretazioni paternalistiche di chi sembra giustificare moralmente percepire il reddito di cittadinanza solo se in cambio si lavora, anche gratuitamente, dall’altro è altrettanto necessario criticare un sistema in cui anche chi volesse cercare davvero un lavoro è lasciato solo nella speranza che la presenza del reddito stesso lo acquieti. A ciò si aggiunga il fatto che, come ben sottolineato nella relazione del Comitato scientifico, il fatto di trovare un lavoro implica una rapida e corposa riduzione del reddito di cittadinanza (si calcola una aliquota marginale dell’80%) tale da scoraggiare la ricerca del lavoro. Così come la presenza di limitazioni sui contratti di lavoro temporanei inferiori ai tre mesi non è un aiuto alla riattivazione delle persone.
 
Quello che emerge dai numeri, e in parte dalle criticità descritte nella relazione, è una visione delle politiche attive del lavoro come quell’attività di proposta di un lavoro alle persone disoccupate e non una più complessa ma più efficace, e soprattutto più equa, attività di riattivazione delle persone da un lato e di diritto alla transizione lavorativa dall’altro. Perché in fondo consentire solo a chi ha già formazione e competenze di trovare un lavoro per smettere di percepire il reddito non è molto diverso dal non garantire a chi ha già un lavoro ma lo vuole cambiare di accedere a percorsi che lo aiutino nella transizione. Una transizione che può migliorare le condizioni del mercato del lavoro nel suo complesso a partire dalle condizioni individuali dei lavoratori. Il reddito di cittadinanza dovrebbe ripartire da qui, e la riforma delle politiche attive anche. Continuare a parlare due lingue diverse non fa altro che confermare e anzi peggiorare un sistema diseguale in cui l’accesso al lavoro è possibile solo ad alcuni.
 
Francesco Seghezzi
 
Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz
 
*pubblicato anche su Domani, 10 novembre 2021

La spinta che manca al reddito di cittadinanza*