La sospensione contributiva del Decreto Ristori tra incertezze interpretative e istanze sindacali: la “reazione” (o lo sciopero?) dell’ANCL

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Bollettino ADAPT 23 novembre 2020, n. 43

 

L’art. 13 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (c.d. Decreto Ristori) ha disposto la sospensione dei versamenti relativi ai contributivi previdenziali e assistenziali “dovuti per la competenza del mese di novembre 2020 in favore dei datori di lavoro appartenenti ai settori interessati dal D.P.C.M. del 24 ottobre 2020. Tale sospensione si applicava anche ai premi per l’assicurazione obbligatoria. Facendo espressamente riferimento al termine “competenza”, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto fare riferimento ai contributi maturati nel mese di novembre 2020, da versare entro il giorno 16 del mese successivo.

Tuttavia, l’art. 11 del decreto-legge 9 novembre 2020, n. 149 (c.d. Decreto Ristori bis) ha successivamente normato la sospensione dei versamenti contributivi prevedendo, questa volta, che la stessa fa riferimento ai versamenti “dovuti nel mese di novembre 2020”. La differenza tra “competenza del mese” e contributi “dovuti nel mese” non è meramente lessicale ma comporta che il riferimento della sospensione non sia riferita più ai contributi maturati a novembre e dovuti entro il 16 dicembre, ma ai contributi di ottobre, da pagare entro il 16 novembre.

 

Questi dubbi interpretativi sono stati affrontati anche dalla circolare 12 novembre 2020, n. 128 emessa dall’INPS, chiarendo che i contributi ai quali fa riferimento l’art. 11 sono quelli in scadenza nel mese di novembre e non quelli maturati nel mese di novembre, da versare entro il 16 dicembre 2020. Tuttavia, la circolare ha aumentato le incertezze sul versante della platea delle aziende destinatarie della misura.

Infatti, in tale circolare si legge che “ai sensi del comma 2 del citato articolo 11 del decreto-legge n. 149/2020, sono altresì destinatari della sospensione dei termini relativi ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali, in scadenza nel mese di novembre 2020, i datori di lavoro privati la cui sede operativa è ubicata nelle c.d. zone arancione e rossa, che svolgono come attività prevalente una di quelle riferite ai codici ATECO riportati nell’Allegato 2 al decreto-legge n. 149/2020”.

 

Successivamente, venerdì 13 novembre 2020, l’INPS, con circolare n. 129, annulla e sostituisce la circolare del giorno precedente, precisando che “ai sensi del comma 2 del citato articolo 11 del decreto-legge n. 149/2020, sono altresì destinatari della sospensione dei termini relativi ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali, in scadenza nel mese di novembre 2020, i datori di lavoro privati la cui unità produttiva od operativa è ubicata nelle c.d. zone rosse, che svolgono come attività prevalente una di quelle riferite ai codici ATECO riportati nell’Allegato 2 al decreto-legge n. 149/2020”.

 

L’Istituto, quindi, inizialmente aveva incluso le c.d. zone arancioni al fine di individuare l’area territoriale in cui occorreva che il datore di lavoro avesse sede operativa per beneficiare della sospensione, omettendo invece di fare riferimento anche all’unità produttiva. Peraltro, in questa prima circolare, la n. 128/2020, l’INPS aveva anche elencato espressamente, oltre alle zone rosse, anche le regioni “arancioni” interessate quali: “Abruzzo, Basilicata, Liguria, Toscana, Umbria, Puglia e Sicilia”.

 

Diversamente, nella circolare successiva, la n. 129/2020, che ha sostituito la circolare n. 128, si legge, invece, che “agli effetti della sospensione dei termini relativi ai versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali in scadenza nel mese di novembre 2020, secondo la previsione dettata dall’articolo 11, comma 2, del decreto-legge n. 149/2020, gli ambiti territoriali sono individuati dall’Ordinanza del Ministro della Salute del 4 novembre e del 10 novembre 2020, come segue: zona rossa: Calabria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta e Provincia Autonoma di Bolzano”.

 

Il celere “cambio di passo” da parte dell’Istituto, a parere di chi scrive, è (forse) stato determinato da una lettura dell’art. 11, comma 2 del decreto-legge n. 149 in combinato disposto con l’art. 3 del D.P.C.M. del 3 novembre. Si legge, infatti, nella prima disposizione citata che la sospensione dei contributi è disposta anche in favore dei datori di lavoro privati che abbiano unità produttive od operative nelle aree caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto. Le aree caratterizzate da alto rischio sono proprio quelle di cui all’art. 3 del D.P.C.M. del 3 novembre e cioè le c.d. zone rosse, che vengono identificate di volta in volta anche dal Ministro della salute.

 

La pubblicazione di due circolari contrastanti tra di loro hanno ingenerato non pochi problemi agli intermediari (in particolare, i consulenti del lavoro), sui quali si riversa l’ingente lavoro di denuncia e di sistematizzazione dei dati relativi alle imprese e ai lavoratori prima della trasmissione alla pubblica amministrazione (INPS), che si limita solo ad un controllo e una verifica. In questa prospettiva, al di là dei problemi interpretativi che tanto la normativa che la prassi amministrativa hanno sollevato, a rilevare – e a porre dei problemi di non poca rilevanza in termini di tutela della persona che lavora – è in questa vicenda anche la cronologia degli atti che si sono succeduti. Infatti, il c.d. “Decreto Ristori” è stato emanato il 28 ottobre 2020, il successivo “Decreto Ristori bis” è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 9 novembre 2020, mentre le modalità operative per richiedere la sospensione della contribuzione sono arrivate soltanto con la circolare INPS di giovedì 12 novembre 2020, poi sostituita e modificata dalla circolare n. 129 pubblicata venerdì 13 novembre 2020.

 

In altri termini, quindi, i consulenti del lavoro hanno potuto avviare le procedure per sospendere i versamenti contributivi solo venerdì pomeriggio, avendo un solo giorno lavorativo di scarto rispetto alle scadenze (perentorie) fissate per il 16 novembre 2020. Sulla questione, è intervenuta l’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro che, in quanto sindacato unico dei consulenti del lavoro, ha denunciato, in un comunicato del 14 novembre, la difficile situazione in cui versano gli studi professionali dei consulenti nel dover far fronte, oltreché all’incertezza interpretativa concernente tali misure, anche alle esigue tempistiche “concesse” dall’INPS per l’applicazione delle modifiche introdotte, con non poche ricadute sulla salute e la sicurezza dei professionisti e dei propri collaboratori.

 

La situazione che si è venuta a delineare va ben oltre la mera protesta di una categoria professionale, prestando il fianco ad alcune riflessioni che, sebbene in una prospettiva de iure condendo, potrebbero contribuire ad un riposizionamento in termini giuridici del lavoratore autonomo che svolge funzioni di intermediazione con la pubblica amministrazione.

 

La circostanza che vede da un lato l’INPS dettare “la tabella di marcia” e dall’altra un esercito di professionisti che “deve” rispettarla senza alcuna contropartita, lascia pensare che l’asimmetria e l’inferiorità rispetto ad un determinato soggetto non è tratto peculiare solo della figura del lavoratore subordinato (P. Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in RIDL, 2012, I, p. 62, il quale ne esclude anche l’intrinsecità). Al contrario, la prassi dimostra che vi sono situazioni in cui il professionista va incontro ad una compressione di diritti costituzionalmente protetti (in primis, il diritto alla salute, a seguire quello di percepire un giusto e sufficiente compenso per il lavoro svolto anche nell’interesse della pubblica amministrazione) generata tuttavia da un soggetto – la pubblica amministrazione – con la quale, almeno formalmente, non vi è nessun rapporto di tipo contrattuale.

 

Tuttavia, la “reazione” del sindacato dei consulenti del lavoro non sembrerebbe ascrivibile ad una mera istanza associativa, di natura extra-sindacale, in quanto la contestazione delle dubbie procedure telematiche individuate dall’INPS, dopo non poche contraddizioni, proviene anche dal fatto che i consulenti sono costretti a seguire le operazioni in tempi stretti e definiti dalla pubblica amministrazione, subendo in altri termini decisioni che hanno una carica e una ricaduta lesiva sull’attività di lavoro dei professionisti. In questa prospettiva, l’azione dell’ANCL, volta a promuovere un “disallineamento operativo” rispetto alle indicazioni unilaterali dell’Istituto, potrebbe essere mirata a pretendere un coinvolgimento della categoria nella organizzazione della tempistica relativa alle procedure e, quindi, volta a rideterminare un equilibrio nel rapporto di fatto che si instaura tra il professionista intermediario e l’INPS. Se così è, l’azione sarebbe volta a tutelare la libertà e l’uguaglianza (sostanziale) tra le parti del rapporto (sia pure di fatto) e quindi a tutelare interessi che scaturiscono direttamente dall’attività di lavoro. Per tale ragione, quest’azione può essere ricondotta nel cuore dell’art. 39 Cost. e quindi qualificata come azione sindacale.

 

Tuttavia, il problema resta sul perché l’INPS dovrebbe prestare attenzione a queste dinamiche di tempo e di organizzazione se tra consulente intermediario e pubblica amministrazione (INPS) non intercorre (o non è facilmente individuabile) una relazione di tipo contrattuale. Questa perplessità potrebbe essere superata se, come fatto in alcuni studi (Centro Studi ANCL (a cura di), Il professionista intermediario. Nuovi diritti tra telelavoro e pubblica amministrazione, Libreria Forense, 2014; più di recente, sulla questione torna G. Piglialarmi, La funzione del consulente del lavoro, Adapt University Press, 2020, p. 12 e ss.), si tenta di intravedere la sussistenza, sia pure timida, di un rapporto tra i due soggetti con reciproci obblighi e diritti, nei fatti per nulla dissimile da quello instaurato dalla pubblica amministrazione con altri soggetti o liberi professionisti (CAFpatronatimedici), ai quali riconosce anche dei compensi per la trasmissione della documentazione.

 

Un punto di partenza, nella prospettiva appena illustrata, può essere quello di rilevare come l’INPS si avvalga in modo sostanziale della categoria professionale dei consulenti del lavoro, dei loro mezzi tecnici e logistici, garantendo così la diffusione capillare degli adempimenti su tutto il territorio. Questa figura professionale, infatti, nasce per frenare gli abusi a danno del sistema previdenziale che si è andato sempre più consolidando e per coadiuvare le imprese all’adempimento contributivo, sempre più complesso (G. Piglialarmi, ult. op. cit., pp. 51 e 81), pur sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro.

 

Inoltre, organizzando l’Istituto tutto il funzionamento del servizio telematico e improntandolo al rispetto prevalentemente delle proprie circolari e delle proprie note procedurali interne, i consulenti sono obbligati a conformarsi a tali procedure, essendo peraltro essi stessi destinatari, anche formalmente, di questi atti. Se, in via interpretativa, l’INPS, come è accaduto, stabilisce nelle circolari le tempistiche da rispettare e le modalità procedurali, in un certo senso sta anche scandendo il tempo e coordinando gli adempimenti che poi gli intermediari dovranno seguire. È sotto questo profilo che potrebbe emergere ancora di più il rapporto di soli obblighi che viene ad instaurarsi tra le parti, senza che però il consulente possa nulla eccepire in merito e senza che possa percepire nessun compenso per il lavoro di sistematizzazione dei dati. In passato, questa etero-coordinazione di fatto che alcuni enti esercitavano sugli intermediari era riconosciuta in termini di diritto; ad esempio, gli intermediari fiscali hanno percepito fino al 2012 il compenso di un euro “per ciascuna dichiarazione elaborata e trasmessa mediante il servizio telematico” (art. 3, comma 3 del D.P.R. n. 322/1998, poi abrogato dalla legge n. 183/2011). Anche se esiguo, quel compenso rappresentava la contropartita di un servizio svolto anche in favore della pubblica amministrazione ed evitava che in un rapporto così articolato rimanessero in vita solo obblighi e costi (per l’intermediario) senza alcun diritto da riconoscere (da parte della pubblica amministrazione).

 

In conclusione, quindi, la reazione (o lo sciopero) dell’ANCL a non eseguire il servizio di denuncia dei dati finalizzati ad accedere alle prestazioni del Decreto Ristori secondo le modalità determinate dall’INPS, perché lesive dei diritti dei professionisti e anche dei contribuenti, potrebbe rappresentare l’inizio di un percorso, che possa anche sfociare in un processo di negoziazione che abbia ad oggetto la regolazione del rapporto di fatto di collaborazione che vi è tra consulenti e INPS, non ancora scandita dal diritto e quindi rilegata per il momento al regno del non-diritto.

 

Francesco Lombardo

ADAPT Junior Fellow

@franc_lombardo

 

Giovanni Piglialarmi

Assegnista di ricerca presso il centro studi DEAL (Diritto Economia Ambiente Lavoro)
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

 

La sospensione contributiva del Decreto Ristori tra incertezze interpretative e istanze sindacali: la “reazione” (o lo sciopero?) dell’ANCL
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