La somministrazione a tempo determinato: limiti espliciti e limiti impliciti nel d.lgs. n. 81/2015

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Nei mercati del lavoro odierni è sempre più diffuso il ricorso da parte delle imprese alla somministrazione di lavoro. Secondo il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del 2017 del Ministero del lavoro, il Sistema Informativo delle Comunicazioni Obbligatorie (SISCO) ha registrato nel 2016 1.805.074 rapporti di lavoro in somministrazione a fronte di 1.614.135 effettuati nel 2015 (incremento dell’11,8% rispetto all’anno precedente, che a sua volta segue il +16,8% del 2015 e il +12,1% del 2014). La quasi totalità di questi rapporti sono stati attivati in forza di un contratto di somministrazione a tempo determinato (99,4% dei casi).

 

Tali dati sono forse giustificati dal fatto che i rapporti di lavoro in somministrazione sembrano rappresentare una “componente della domanda di lavoro particolarmente sensibile all’andamento del ciclo economico: le imprese, attraverso questo strumento, infatti, “in risposta all’andamento della domanda di beni e servizi possono aggiustare con facilità e senza particolari costi il proprio input di lavoro, variando il numero di lavoratori in somministrazione richiesti alle agenzie che forniscono questo servizio” (cfr. il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del 2016, p. 78) [1].

 

Se questi sono i numeri e le ragioni del fenomeno, il presente contributo è volto ad analizzare i limiti (espliciti e impliciti) posti dalla legge, più precisamente dal d.lgs. n. 81 del 2015, al ricorso alla somministrazione a tempo determinato che, come sopra visto, risulta essere nella prassi la più rilevante tipologia (per numero di contratti stipulati).

 

Prima di fare ciò è, però, utile ricordare che la somministrazione di lavoro è definita dal nostro legislatore quale quel “contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata […] mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore” (art. 30 del d.lgs. n. 81/2015).

 

Proprio l’utilizzo dell’articolo indeterminativo (“uno o più lavoratori…”) e, comunque, il mancato ricorso ad aggettivi quali “determinato/i”, “individuato/i”, ecc., unitamente al fatto che l’art. 33 del d.lgs. n. 81 del 2015, nel prevedere una serie di requisiti che il contratto di somministrazione deve presentare, ricomprende il “numero di lavoratori da somministratore(e non anche il nominativo degli stessi), paiono dimostrare che il legislatore non ha fatto rientrare nell’astratta causa del tipo contrattuale di cui all’art. 30 la messa a disposizione di uno o più lavoratori “nominati” (Paolo Rossi piuttosto che Mario Bianchi), ma soltanto la fornitura di lavoratori individuati soltanto sulla base del criterio della idoneità (professionale) a svolgere determinate mansioni.

Tutto questo per sottolineare che, secondo lo schema del contratto di somministrazione tipico (ossia quello definito dal d.lgs. n. 81/2015), l’utilizzatore non “compra” il lavoratore x o y, ma un servizio, ossia la somministrazione, per un certo periodo di tempo, di un certo numero di lavoratori che siano professionalmente capaci a svolgere “mansioni alle quali saranno adibiti” corrispondenti ad un determinato “inquadramento” anch’esso da indicare nel contratto (vd. sempre art. 33) e, per questo, sostituibili con altri aventi analoga professionalità.

 

Occorre, inoltre, evidenziare che, con la stipula del contratto di somministrazione, si avrà di fatto una “scissione” del “normale” rapporto di lavoro subordinato (artt. 2094 c.c. e ss.): il prestatore di lavoro risulterà formalmente alle dipendenze del somministratore (che conserverà l’esercizio del potere disciplinare) ma sostanzialmente sotto la direzione dell’utilizzatore (che eserciterà il potere direttivo), con la conseguenza che verranno ad esistenza tre distinti rapporti giuridici (quello tra agenzia e lavoratore, quello tra lavoratore e utilizzatore, oltre a quello tra utilizzatore ed agenzia)[2].

 

* * *

 

Fatta questa debita premessa, è ora possibile rispondere alla seguente questione: fermi restando i divieti (art. 32) e i vincoli di forma e di contenuto del contratto (art. 33), quali altri limiti di legge (d.lgs. n. 81/2015) incontra la somministrazione di lavoro a tempo determinato?

 

La prima disposizione utile a rispondere a questa domanda è l’art. 31, rubricato “Somministrazione di lavoro a tempo indeterminato e determinato”, che al comma 2 stabilisce che:

 

La somministrazione di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore” (primo periodo; nel periodo successivo sono previsti delle deroghe a questa regola per particolari tipologie di lavoratori quali quelli svantaggiati).

 

Sicché, in materia di somministrazione  a tempo determinato, i limiti posti in modo esplicito dalla legge (art. 31, comma 2 del d.lgs. n. 81/2015) sembrano essere soltanto quelli “quantitativi” (ad es. numero massimo di lavoratori somministrati da calcolare prendendo a riferimento il numero di lavoratori assunti direttamente dall’utilizzatore) stabiliti dai “contratti collettivi” applicati dall’utilizzatore, e cioè “i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (vd. art. 51 del d.lgs. n. 81/2015).

 

Occorre, inoltre, aggiungere che l’art. 34 del d.lgs. n. 81 del 2015, che regola esclusivamente il contratto di lavoro tra somministratore e lavoratore, e non anche il contratto commerciale di somministrazione, prevede che l’assunzione del lavoratore da parte dell’agenzia può essere a tempo indeterminato (nel caso di somministrazione a tempo indeterminato, c.d. staff leasing, ciò è obbligatorio) o a tempo determinato.

 

Nel caso di assunzione a tempo determinato, però, il “rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III per quanto compatibile, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24” (art. 34, comma 2), e cioè di quelle disposizioni che riguardano il contratto di lavoro a tempo determinato “standard”, segnatamente l’apposizione del termine e la durata massima (art. 19), le proroghe e i rinnovi (art. 21), il numero complessivo di contratti a tempo determinato (art. 23) e i diritti di precedenza (art. 24).

Sicché a questo contratto di lavoro, pur se qualificato come “a tempo determinato”, non si applicano alcune delle più stringenti regole poste, in via generale, dal d.lgs. n. 81 del 2015 con riferimento ai contratti a termine. Ed infatti, come è chiarito dall’ultimo periodo del medesimo art. 34, comma 2, il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, sempre con il consenso del lavoratore e per atto scritto, “nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”.

 

Senonché, l’art. 34 del d.lgs. n. 81 del 2015 non risponde direttamente al quesito sopra individuato perché, come già evidenziato, esso regola il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore somministrato e non anche il contratto commerciale tra agenzia e utilizzatore.

 

La conferma di quanto detto si può trovare nell’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015, disposizione che, nel disciplinare le conseguenze della somministrazione “irregolare, prevede, al comma 2, la possibilità per il lavoratore di agire in giudizio al fine di chiedere, anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo con effetto dall’inizio della somministrazione in caso di mancato rispetto dei limiti e condizioni posti dagli artt. 31, commi 1 e 2, 32 e 33, lett. da a) a d) (e non anche di altri “limiti” o regole quali quelle di cui all’art. 34).

 

In definitiva, i limiti posti dalla legge in modo “esplicito” (d.lgs. n. 81/2015, Capo IV) in materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato sono soltanto quelli “quantitativi” previsti dai contratti collettivi (vd. art. 51) applicati dall’utilizzatore (vd. art. 31, comma 2), il cui mancato rispetto comporta la possibilità per il lavoratore di agire in giudizio per ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente alle dipendenze dell’utilizzatore (vd. art. 38).

 

Possibilità, quest’ultima, che sembrerebbe, invece, preclusa – stante il tenore letterale dell’art. 38 –nel caso in cui il contratto di lavoro a tempo determinato tra agenzia di somministrazione e lavoratore non rispetti quanto stabilito dall’art. 34, comma 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 (e dalle altre disposizioni in materia di contratto a termine contenute nel medesimo decreto legislativo e applicabili a questo rapporto di lavoro) e dai contratti collettivi applicati dal somministratore in materia di proroga del contratto[3].

Le considerazioni sin qui svolte sono state fatte in “in astratto”, ossia sulla base del dato normativo esplicitamente dedicato all’istituto (Capo IV del d.lgs. n. 81/2015). Tuttavia, per valutare la liceità e genuinità di un contratto di somministrazione a tempo determinato occorre analizzare il caso concreto per verificare se il o i più contratti di somministrazione stipulati ed eseguiti costituiscano, o no, il “mezzo” per eludere l’applicazione di una norma imperativa (c.d. contratto in frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c.)[4].

 

Al riguardo, è necessario tener presente che l’art. 19 del d.lgs. n. 81 del 2015, nel disciplinare il lavoro a tempo determinato, prevede che:

 

Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi” (comma 1);

 

Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi, e con l’eccezione delle attività stagionali di cui all’articolo 21, comma 2, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i trentasei mesi. Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato. Qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento” (comma 2).

 

Questa disposizione pone una serie di questioni non solo di interpretazione di un dato letterale non perfettamente intelligibile (considerato il ricorso a termini generici come “rapporti di lavoro”, “contratti”, “contratto”, ecc.), ma anche di ordine sistematico: il secondo comma dell’art. 19 stabilisce delle regole applicabili esclusivamente all’ipotesi di stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato oppure è una disposizione “sistematica”[5] che, seppur collocata nella parte del d.lgs. n. 81 del 2015 dedicata al lavoro a termine (Capo III), è applicabile in via diretta o indiretta, ossia in via analogica, anche ad altre ipotesi?

 

In passato, una lettura nel senso di contenere la portata della disposizione (all’epoca contenuta nel d.lgs. n. 368/2001, art. 5, comma 4bis) al ristretto ambito del lavoro a tempo determinato l’ha offerta la circolare n. 18/2012 del Ministero del lavoro (“il periodo massimo di 36 mesi […] rappresenta un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non al ricorso alla somministrazione di lavoro”, con la conseguenza che “raggiunto tale limite il datore di lavoro potrà comunque ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore anche successivamente al raggiungimento dei 36 mesi”).

 

Anche parte della giurisprudenza di merito, seppur pronunciandosi sulla previgente normativa che imponeva l’indicazione nel contratto di somministrazione a tempo determinato e l’effettiva esistenza di “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” (vd. previgente art. 20, comma 4 del d.lgs. n. 276/2003), aveva evidenziato come “in materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato non esista un divieto o un limite di legge alla successione di contratti – a differenza di quanto invece previsto per i contratti a termine – e quindi come sia consentita la reiterazione di contratti di somministrazione anche senza soluzione di continuità (purché ovviamente finalizzati a soddisfare reali esigenze tecniche, organizzative o produttive) con lo stesso datore di lavoro” (cfr. Corte d’Appello di Bologna, Sez. lav., sent. 20 gennaio 2016)[6].

Pure parte della dottrina aveva sostenuto che i previgenti artt. 20 e ss. del d.lgs. n. 276/2003 hanno delineato uno schema contrattuale in cui «ciò che conta e va collocato temporalmente è il contratto di somministrazione e non l’inizio e la durata del rapporto di lavoro, in quanto questo elemento rimane nella esclusiva dimensione organizzativa e di scelta dell’agenzia»[7]. E così, secondo un’altra opinione, l’utilizzatore potrà anche non conoscere né sarà tenuto a informarsi (anche se la prassi e l’obbligo di registrare nel libro unico del lavoro anche i lavoratori somministrati fanno pensare il contrario) la tipologia (a tempo indeterminato o determinato) del contratto di lavoro con cui il lavoratore somministrato è stato assunto dall’agenzia[8].

 

Ed infatti, nel caso di somministrazione a tempo determinato non vi è necessariamente corrispondenza tra tipologia e durata del contratto commerciale e tipologia e durata del contratto di lavoro: l’agenzia potrà decidere di far fronte agli obblighi derivanti da un contratto di somministrazione a tempo determinato anche con lavoratori assunti a tempo indeterminato o con il succedersi di più lavoratori assunti a tempo determinato.

È anche vero, però, che, attraverso la somministrazione a tempo determinato, si potrebbero conseguire in concreto risultati altrimenti vietati nel nostro ordinamento che comporterebbero, se ritenuti legittimi, un’evidente stortura del mercato del lavoro e del principio di parità di trattamento e di ragionevolezza dell’intero sistema.

 

Si pensi, ad esempio, al caso di un lavoratore, assunto dall’agenzia con uno o più contratti a termine, che viene inviato in missione per complessivi cinque anni presso il medesimo utilizzatore nell’ambito di uno o più contratti di somministrazione a tempo determinato.

In questa ipotesi, tale lavoratore, da un lato, non potrebbe agire nei confronti dell’agenzia di somministrazione al fine di ottenere un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (vd. art. 34, comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 che esclude l’applicazione all’agenzia delle regole in materia di durata massima e trasformazione del contratto in tempo indeterminato, salvo diversa previsione del contratto collettivo applicato dal somministratore), dall’altro lato, seguendo l’interpretazione data in passato dal Ministero del lavoro, il lavoratore somministrato non potrebbe neanche agire nei confronti dell’utilizzatore, posto che esso è formalmente dipendente dell’agenzia, per cui non intercorrendo alcun contratto di lavoro a termine con il datore di lavoro “sostanziale” non troverebbero applicazione le disposizioni di cui agli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015.

 

È evidente, pertanto, la disparità di trattamento (vietata ai sensi dell’art. 35, comma 1: “Per tutta la durata della missione presso l’utilizzatore, i lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore”)[9] riservata al lavoratore somministrato rispetto al lavoratore assunto con contratto a tempo determinato direttamente dall’utilizzatore che, pur trovandosi in condizioni simili (prestazione di lavoro a tempo determinato presso la medesima impresa), può ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro “stabile” in caso di mancato rispetto dei limiti posti dalla legge (artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015) e dalla contrattazione collettiva.

 

Peraltro, la disparità di trattamento potrebbe emergere (in astratto) anche rispetto a lavoratori assunti a tempo indeterminato nell’ambito del c.d. staff leasing, atteso che la reiterazione di plurimi contratti di somministrazione a tempo determinato ben potrebbe essere di fatto assimilabile, nel caso in cui la durata complessiva del rapporto commerciale sia di fatto considerevole (ad es. 10-15 anni), ad una somministrazione a tempo indeterminato.

Pertanto, l’unico modo per il lavoratore somministrato di porre nel nulla l’intera operazione realizzata (stipula ed esecuzione di uno o più contratti di somministrazione a tempo determinato con conseguente stipula ed esecuzione di uno o più contratti di lavoro a tempo determinato) sarebbe il ricorso agli istituti civilistici del contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.)[10] o del motivo illecito comune alle parti (art. 1345 c.c.), la cui applicazione alla fattispecie concreta è lasciata, per forza di cose (stante la natura generale di tali istituti), all’ampia discrezionalità del giudice che dovrà esaminare nel dettaglio i contratti stipulati e le circostanze di fatto, con tutte le incertezze che ne derivano nei rapporti tra utilizzatore ed agenzia e tra utilizzatore e lavoratore somministrato[11].

 

Da una prospettiva de jure condendo, sarebbe (stato), quindi, opportuno, anche ai fini di una maggiore chiarezza e certezza del diritto, chiarire direttamente all’interno del Capo IV del d.lgs. n. 81 del 2015, dedicato alla somministrazione, questi aspetti (esistenza di eventuali limiti “temporali” all’effettivo utilizzo da parte dell’utilizzatore del medesimo lavoratore somministrato; applicabilità diretta o indiretta delle disposizioni in materia di contratto a temine, in particolare dell’art. 19, comma 2, anche alle ipotesi di rapporti di lavoro a tempo determinato nell’ambito di somministrazioni a tempo determinato, ecc.).

Ciò anche in considerazione del fatto che, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 34 del 2014 (c.d. Decreto Poletti), convertito con modificazioni in legge n. 78 del 2014, è stata realizzata una sostanziale “liberalizzazione” dell’apposizione di termini sia ai rapporti di lavoro subordinato che alla somministrazione di lavoro in quanto è stato eliminato l’obbligo di indicare le “ragioni” giustificatrici anche con riferimento al ricorso alla somministrazione a tempo determinato (ragioni, queste, che potevano, invece, costituire un valido elemento per valutare la conformità del contratto stesso all’intero ordinamento giuridico).

 

* * *

 

In conclusione, e per rispondere alla domanda da cui si è partiti, l’unico limite posto in modo “esplicito” dalle legge in materia di somministrazione a tempo determinato (artt. 30 e ss. del d.lgs. n. 81/2015) è quello “quantitativo” come definito  dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del medesimo decreto legislativo applicati dall’utilizzatore, la cui violazione comporta la possibilità per il lavoratore di agire in giudizio per ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente alle dipendenze dell’utilizzatore (art. 38).

 

Quanto agli eventuali vizi e violazioni del contratto di lavoro, questi, in linea generale e di massima, rappresentano vicende “estranee” all’utilizzatore in quanto si riflettono esclusivamente sul rapporto interno tra agenzia e lavoratore.

 

In ogni caso, e a meno che non si voglia interpretare l’art. 19, comma 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 come una disposizione “sistematica” applicabile in via diretta o analogica anche ad altre ipotesi, il risultato in concreto realizzato mediante la complessiva operazione di somministrazione (ad es., reiterazione di più contratti di somministrazione a tempo determinato che di fatto coinvolgono lo stesso lavoratore) può rilevare sotto il profilo del c.d. contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto tale operazione potrebbe rappresentare il mezzo per eludere norme imperative per l’utilizzatore, quali ad esempio quelle in materia di durata massima e proroghe del contratto di lavoro a termine (art. 19 del d.lgs. n. 81/2015).

 

Federico D’Addio

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@federicodaddio

 

[1] In realtà, il “costo” della somministrazione è maggiore rispetto ad un’assunzione diretta (ai costi della retribuzione si aggiunge, infatti, il margine di profitto dell’agenzia), tuttavia con tale strumento sarebbe possibile conseguire altri vantaggi: la possibilità di avvalersi di una prestazione lavorativa senza dover procedere all’assunzione del lavoratore; l’eliminazione del rischio di assenze (in caso di impossibilità ad eseguire la prestazione l’agenzia invia un lavoratore in sostituzione); la possibilità di valutare un lavoratore anche per più di sei mesi (durata massima del periodo di prova), cfr. G. Santoro Passarelli, Diritto dei lavori e dell’occupazione – Diritto sindacale e rapporti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2015, ed. V, cap. 40, par. 4.

 

[2]Nella costruzione legale dell’istituto, così come disciplinato dal D.lgs. n. 276 del 2003, art. 2, comma 1, lett. a) e art. 20, comma 1, e successive modifiche e integrazioni, la somministrazione di lavoro vede, infatti, coinvolti tre soggetti, legati da tre distinti rapporti giuridici (il primo tra lavoratore e somministratore, il secondo tra somministratore ed utilizzatore, il terzo tra lavoratore e utilizzatore) in virtù di due specifici contratti (il contratto di somministrazione ed il contratto di lavoro). I due singoli contratti, pur avendo ciascuno causa ed oggetto propri, sono funzionalmente legati per la reciproca integrazione degli interessi economici sottesi e danno luogo ad una separazione fra la gestione normativa e la gestione tecnico-produttiva del lavoratore” (cfr. Corte d’Appello di Milano, Sez. lav., sent., 22 maggio 2017).

 

[3] Secondo un orientamento giurisprudenziale di merito, infatti,  “In tema di fornitura di prestazioni lavorative, occorre distinguere nella complessa operazione negoziale, il contratto di somministrazione di manodopera (che è quello stipulato tra somministratore ed utilizzatore) ed il contratto stipulato tra somministratore e prestatore di lavoro (assoggettato alla disciplina propria del rapporto di lavoro prescelto): mentre i vizi, formali e/o sostanziali, del contratto di somministrazione di manodopera si ripercuotono sul rapporto di lavoro sottostante, determinando la possibilità per il lavoratore di ottenere la sostituzione ex lege del datore di lavoro “formale” (la società di somministrazione) con il datore di lavoro “sostanziale” (utilizzatore della prestazione), i vizi, formali e/o sostanziali, del contratto di lavoro non si riflettono sul contratto di somministrazione, con la conseguenza che eventuali irregolarità del contratto di lavoro producono effetti solo nei rapporti tra lavoratore e somministratore; in altri termini, gli eventuali vizi, anche di forma, del contratto stipulato tra lavoratore e somministratore, non possono farsi ricadere sull’utilizzatore, totalmente estraneo al rapporto” (Trib. Chieti, 19 novembre 2015, n. 478).

 

[4] Si parla anche di abuso del tipo quando le parti, pur facendo ricorso ad un contratto tipizzato dal legislatore (e, pertanto, astrattamente lecito), intendono utilizzare quel contratto per eludere una norma imperativa.

 

[5] Una lettura in tal senso potrebbe trarsi dall’utilizzo da parte dell’art. 19, comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 di termini, come detto, generici ma soprattutto diversi rispetto alla previgente disposizione di cui all’art. 5, comma 4bis del d.lgs. n. 368/2001. Ed infatti, se in quest’ultima disposizione si parlava espressamente di “successione di contratti a termine” nel vigente art. 19 si parla genericamente di “durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti” (non più “contratti a termine”).

 

[6] Tuttavia, in quella medesima sentenza è stato precisato, seppur in via incidentale, che “Da ultimo, con la L. n. 78 del 2014, di conversione del c.d. Job Act, si è ulteriormente specificato che il periodo di durata massima di 36 mesi riguarda esclusivamente il contratto a termine e non la somministrazione”.

 

[7] P. Chieco, Somministrazione, comando, appalto. Le nuove forme di prestazione di lavoro a favore del terzo, in P. Curzio (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Cacucci, Bari, 2004, p. 115.

 

[8] In tal senso, cfr. L. Zappalà, La forma nel contratto di somministrazione, WP CSDLE .IT 39/2005, p. 9. Con la conseguenza che «L’unica circostanza cui dovrà prestare attenzione, al fine di evitare eventuali contestazioni da parte del lavoratore, è il rispetto del termine finale pattuito nel contratto di somministrazione…».

 

[9] Proprio l’art. 35, comma 1 del d.lgs. n. 81/2015 potrebbe assolvere la funzione di norma mediante al quale trova applicazione, anche nell’ambito di un rapporto di lavoro sui generis (come quello tra utilizzatore e lavoratore somministrato), l’art. 19, comma 2 del medesimo decreto legislativo.

 

[10] Sul punto giova richiamare quell’orientamento giurisprudenziale che, seppur formatosi con riguardo al diverso istituto del lavoro interinale (legge n. 196/1997), ha avuto modo di precisare che: “In materia di rapporto di lavoro interinale, disciplinato dalla l. n. 196 del 1997, la mancata previsione, nell’ambito della stessa legge, di un divieto di reiterazione dei contratti di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo conclusi con lo stesso lavoratore avviato presso la medesima impresa utilizzatrice non esclude che, in tali casi, possano configurarsi ipotesi di contratti in frode alla legge, allorché la reiterazione costituisca il mezzo, anche attraverso intese, esplicite o implicite, tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice concernenti la medesima persona del prestatore, per eludere la regola della temporaneità dell’occasione di lavoro che connota tale disciplina” (cfr., fra le altre, Cass. Civ., Sez. lav., sent. 12 gennaio 2012, n. 232).

 

[11] La giurisprudenza di legittimità formatasi sulla previgente normativa (d.lgs. n. 276/2003) ha affermato che “trattandosi di negozi collegati, la nullità del contratto fra somministratore ed utilizzatore travolge anche quello fra lavoratore e somministratore, con l’effetto finale di produrre, come detto, una duplice conversione, sul piano soggettivo (D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 21, u.c., il lavoratore è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore e non più del somministratore) e su quello oggettivo (atteso che quello che con il somministratore era sorto come contratto di lavoro a tempo determinato diventa un contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore)” (cfr. Cass. Civ., Sez. lav., 7 luglio 2015, n. 14033).

 

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La somministrazione a tempo determinato: limiti espliciti e limiti impliciti nel d.lgs. n. 81/2015
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