La riforma della dirigenza pubblica: prospettive ambiziose e risultati deludenti

Agli inizi dello scorso ottobre, in occasione del congresso inaugurale della Comunidad CIELO (Comunidad para la Investigación y el Estudio Laboral y Ocupacional) celebratosi presso l’Università di Oporto, avente ad oggetto, come tema generale, gli attuali cambiamenti e le nuove sfide per il mondo del lavoro, avevo avanzato una previsione: la dirigenza pubblica, dopo circa venticinque anni di tormentate riforme, avrebbe conosciuto ben presto una fisionomia più definita rispetto alle altre materie afferenti al settore pubblico del lavoro, interessate dalla c.d. “legge Madia” di riorganizzazione della Pubblica Amministrazione italiana (l. n. 124/2015). Ed in effetti, di lì a poco, sullo schema di decreto legislativo recante “Disciplina della dirigenza della Repubblica”, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 26 agosto, in attuazione dell’art. 11 l. n. 124/2015, si sarebbero espressi i pareri del Consiglio di Stato (il 14 ottobre), della Conferenza Unificata (il 3 novembre) e delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato (rispettivamente, il 9 ed il 10 novembre), che avrebbero contribuito – specie con riferimento all’analitico vaglio operato dalla Commissione Speciale di Palazzo Spada – a delineare un quadro più chiaro della nuova disciplina.

A distanza di un paio di mesi dal congresso di Oporto, tuttavia, la previsione ivi avanzata si è rivelata, al di là di ogni fervida immaginazione, del tutto disattesa.

 

Com’è noto, infatti, la Corte Costituzionale, con l’innovativa sentenza n. 251, del 25 novembre scorso, su ricorso della Regione Veneto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, tra le altre, delle disposizioni di cui al citato art. 11 della  “legge Madia”, che delegano il Governo a legiferare in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica. Tale pronuncia, intervenendo prima del 27 novembre (data di scadenza della delega), ha precluso l’entrata in vigore del decreto in questione, le cui norme potranno continuare a “vivere” soltanto in caso di promulgazione di una nuova legge delega che, con gli opportuni “correttivi”, si ponga sulla stessa scia di quella precedente.

La Corte, dunque, si pronuncia prima della scadenza della delega, ma non in tempo per correggere il relativo procedimento; né si fa carico di tale ambiguità “proponendo, ad esempio, il prolungamento dei termini di delega”: come dovrà procedere il Governo?

 

L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre ed il conseguente cambio del Governo aumenta il tasso di incertezza in subiecta materia. E’ stato correttamente affermato, infatti, che “la durata della delega risente fortemente del rapporto di fiducia e delle valutazioni del Parlamento sulla situazione politica e sulla sua evoluzione” (J. MARSHALL, La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, in Giorn. dir. amm., 6/2016, p.710). Da qui, l’effetto “ghigliottina” della pronuncia d’incostituzionalità denunciato a gran voce dalla stampa quotidiana, il cui decisum, per il resto, si limita a rilevare una violazione procedurale attinente all’adozione di decreti attuativi sulla base di un mero parere con la Conferenza Unificata: una forma di accordo con le Regioni che – ad avviso della Corte – sarebbe inidonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali, il quale, per converso, dovrebbe essere garantito da un’ “intesa forte” in sede di Conferenza Stato- Regioni.

Pertanto, come è stato osservato, gli effetti della sentenza de qua potrebbero essere quasi completamente assorbiti attraverso una futura attività di decretazione adottata “a sanatoria” che, come di consueto, riproduca sostanzialmente le norme già emanate (V. FERRANTE, Fare i conti senza l’oste: le Regioni, la riforma Madia e la Corte Costituzionale, in www.ipsoa.it, 3 dicembre 2016). D’altronde, è lo stesso Giudice delle leggi che, a chiusura della propria decisione, specifica che il rilevato vizio procedurale rimane circoscritto alle disposizioni contenute nella legge delega, dovendosi accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali da parte delle relative disposizioni attuative soltanto nel caso in cui queste ultime siano oggetto di specifica impugnazione. Ed anche in siffatta ipotesi, il vaglio costituzionale dovrà tenere conto delle “soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione”.

In quest’ottica – ed anche in considerazione della, quantomeno apparente, continuità dell’azione di Governo del nuovo Esecutivo Gentiloni –  la nuova disciplina della dirigenza pubblica, sebbene non sia più entrata in vigore, non può dirsi ancora del tutto fuori dai giochi.

 

Cosa cambierebbe sul piano operativo? Il nuovo intervento riformatore, superando il perimetro della singola amministrazione, crea un vero e proprio “sistema della dirigenza pubblica”, articolato in ruoli unificati e coordinati (statali, regionali e locali), ed elimina la distinzione nelle due fasce, con la finalità di assicurare una maggiore mobilità, verticale ed orizzontale.

 

Tale scelta comporta, come corollario, la centralizzazione delle procedure di reclutamento, che consistono nei due tradizionali canali di accesso del “corso-concorso” e del “concorso”. Questi ultimi si snodano attraverso innovativi meccanismi di c.d. “fast track”, in base ai quali, sostanzialmente, il vincitore del “corso-concorso” o del “concorso” non assume direttamente la qualifica dirigenziale ma, nel primo caso, viene immesso nel ruolo soltanto dopo un triennio di “funzionariato” che si conclude con una valutazione positiva e, nel secondo caso, viene assunto come dirigente a tempo indeterminato nella sola ipotesi di superamento di un esame di conferma a cui viene sottoposto alla scadenza di un rapporto a termine della durata di tre anni.

 

Oltre che sull’accesso, l’abolizione della distinzione in fasce e ruoli separati incide anche sul sistema di conferimento degli incarichi. Infatti, la nuova regola per cui “ogni dirigente iscritto nei ruoli può ricoprire qualsiasi incarico dirigenziale” costituisce conseguenza diretta dell’unificazione della qualifica dirigenziale. In particolare, nell’ambito del ruolo unico, la governance centralizzata del flusso degli incarichi dirigenziali è attribuita – con il supporto tecnico della “banca dati” istituita presso il Dipartimento della Funziona Pubblica – alle nuove “Commissioni per la dirigenza” che, composte da 7 membri (5 normativamente individuati e 2 variabili), svolgono funzioni delicatissime, attinenti a tutte le fasi nevralgiche del rapporto di ufficio: dal conferimento, alla valutazione, sino alla cessazione dell’incarico. Nell’eterno pendolo tra fiduciarietà ed imparzialità dell’incarico, la “Commissione per la dirigenza” dovrebbe fungere, quindi, da anello di congiunzione. Sul punto, tuttavia, lo scetticismo è d’obbligo. Da un lato, infatti, è difficile immaginare che funzioni così delicate (che richiederebbero una dedizione piena) vengano attribuite (in aggiunta ad impegni lavorativi già esistenti e particolarmente assorbenti) a soggetti che già ricoprono cariche istituzionali di assoluto rilievo. Dall’altro lato, guardando alla composizione della Commissione, molte sono le zone d’ombra che si profilano con riguardo, sia alla specifica competenza in tale ambito di alcuni dei membri, sia all’effettiva indipendenza ed autonomia di altri che, in quanto dirigenti apicali, provengono da carriere rientranti nell’ambito di applicazione della stessa riforma.

Ciò assume rilevanza vieppiù ove si consideri che la riforma Madia mantiene, in apicibus, l’operatività dello strumento dello spoil system, di populistica e jacksoniana memoria, teso a garantire un distensivo rapporto fiduciario tra organo politico e vertice amministrativo.

 

Invero, dalla “procedimentalizzazione” del conferimento dell’incarico (quasi assimilabile ad una vera e propria “concorsualizzazione”, di cui andrebbero valutate anche le connesse refluenze sul piano del riparto di giurisdizione) sfuggono gli incarichi apicali, nonché altre tipologie peculiari di incarichi temporanei, come quelli attribuiti durante il periodo di funzionariato ovvero quelli conferiti direttamente dall’Amministrazione e dal Dipartimento della Funzione Pubblica per i dirigenti rimasti privi di incarico.

 

Al riguardo, irrisolto rimane il nodo dei dirigenti privi di incarico, per scadenza del termine o per revoca dell’incarico in caso di accertata responsabilità dirigenziale. Ai primi, si applica – ricorrendo ad una analogia un po’ forzata – la disciplina sulle eccedenze di personale e mobilità collettiva di cui agli artt. 33 e 34, d.lgs. n. 165/2001, con l’obbligo di partecipare ad almeno cinque interpelli all’anno. Per i secondi, invece, è prevista la decadenza dal ruolo nell’ipotesi in cui, dopo una anno di collocamento in disponibilità, il dirigente rimane ancora privo di incarico. Sui possibili profili di illegittimità costituzionale di tale previsione si sono espressi all’unisono i pareri del Consiglio di Stato e delle Commissioni Affari Costituzionali, censurando l’attribuzione dell’extrema ratio del licenziamento ad un automatismo, che prescinde da qualsiasi valutazione o contraddittorio e determina un’indebita sovrapposizione tra rapporto di ufficio e rapporto di servizio. In tal modo, in effetti, si realizzerebbe quella che già era stata icasticamente definita, nell’ordinamento spagnolo, come una vera e propria caída al vacio del dirigente, rimasto privo di incarico e, conseguentemente, “caduto nel vuoto”, attraverso la definitiva decadenza dal ruolo.

 

Neppure le previsioni dettate in materia di durata e conferimento dell’incarico all’esterno risultano del tutto conformi alla tralaticia giurisprudenza costituzionale elaborata in materia. Sotto il primo profilo, infatti, se è previsto che la durata quadriennale dell’incarico possa essere prorogata per un ulteriore biennio, una sola volta, in presenza di valutazione positiva e con atto motivato; l’obbligo motivazionale non è, invece, richiesto nell’ipotesi opposta del mancato rinnovo, in spregio ai principi su cui fonda il legittimo esercizio dell’azione amministrativa. Per quanto concerne il secondo profilo, ben vero, l’espunzione dell’ inciso “soggetti di comprovata qualificazione professionale non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione” (ex art. 19, co. 6, d.lgs. n. 165/2001) a cui attribuire l’incarico esterno, determinerebbe una aprioristica riserva di posti a soggetti esterni al ruolo, non giustificata dall’assenza di specifiche professionalità interne e, dunque, facilmente soggetta ad usum delphini.

Se ne trae il convincimento di un’accentuata “verticalizzazione” (sostanzialmente esente da controlli) della nuova figura del “dirigente generalista”, sempre più asservita all’organo politico; il quale dispensa e attribuisce incarichi, risultando comunque immune da eventuali responsabilità in ordine alla “pre-orientata” gestione posta in essere dai propri “fiduciari”.

Queste, tra molte altre, le novità previste dalla “legge Madia” che, seppure – allo stato – non delineate nella loro effettiva cogenza, parrebbero aumentare le distanze tra una riforma prospettata come risolutiva e una realtà normativa ancora una volta deludente.

 

Giuseppina Pensabene Lionti

Dottore di ricerca in Diritto Privato (sezione Diritto del Lavoro) – Università degli Studi di Palermo

Doctora en Derecho (Dpto. Derecho del Trabajo y de la Seguridad Social) – Universidad de Valencia

Professore a contratto di “Politiche e tecniche di contrasto al lavoro irregolare”- Università di Palermo (Polo di AG)

Avvocato

 

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