La regolazione del lavoro tra norme sociali e giuridiche. A proposito di una proposta metodologica per superare le secche della crisi del diritto del lavoro

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Bollettino ADAPT 25 gennaio 2021, n. 3

 

Per superare le secche dell’oramai decennale dibattito sulla “crisi” del diritto del lavoro ci pare di un certo interesse la proposta metodologica avanzata recentemente da Ruth Dukes e Wolfgang Streeck di utilizzare categorie proprie della sociologia economica per superare quella che è anche, se non soprattutto, una “crisi di concetti” (vedi Ruth Dukes e Wolfgang Streeck, “Labour constitutions and Occupational Communities: Social Norms and Legal Norms at Work”, in Journal of Law and Society, Vol. 47, N. 4, november 2020, pp. 612-638).

 

Già dalle prime pagine del contributo emerge con chiarezza una indicazione importante per la riflessione su una concezione del diritto del lavoro coerente con le trasformazioni in atto, utile anche a ricordare la centralità di tematiche spesso trascurate dalla dottrina giuslavoristica, e cioè l’invito a ritornare ai due interrogativi alla base di ogni forma di regolazione del lavoro: “who gets what work” e “under which terms and conditions”. A questi se ne aggiunge un terzo: “which are the desired or just boundaries between the commodified and the non commodified spheres of life”, che come spiegheranno gli autori è estremamente sfidante nei moderni mercati del lavoro connotati da “less standardized, unconventional life-course and employment careers” (p. 625).

 

Se, come sostengono gli autori, la crisi del diritto del lavoro da più parti segnalata è anche una crisi di concetti (un esempio è la discussa dicotomia subordinazione/autonomia, non più in grado di cogliere la realtà dei rapporti di lavoro) (p. 619) sembra promettente una sociologia weberiana del diritto del lavoro, nella cui prospettiva la razionalità giuridica è informata dalla conoscenza empirica delle diverse esperienze contestualizzate del lavoro.

 

Un concetto chiave in tale prospettiva è quello di “occupational community” che denota una collettività di lavoratori che condividono una comune posizione nel lavoro, da cui derivano norme sociali condivise e rapporti di solidarietà, che il diritto del lavoro è chiamato a trasformare in regole. Tale collettività può avere un perimetro variabile, tracciato dal settore o dalla professione, o dallo status occupazionale. Il concetto di comunità è importante perchè evidenzia come al centro non siano solo le relazioni di lavoro, ma anche altre relazioni che vanno tenute in considerazione per una efficace regolazione del lavoro (p. 620): in questo passaggio è possibile cogliere un collegamento con le riflessioni di chi segnala l’urgenza riscoprire la natura “relazionale” del lavoratore al fine di porre il diritto del lavoro al cuore di un nuovo modello sociale orientato alla sostenibilità ambientale, economica e sociale (tra gli altri si veda il recente contributo  T. Novitz, “Engagement with sustainability at the International Labour Organization and wider implications for collective worker voice”, International Labour Review, 159, pp. 463–482, che richiama sul punto le interessanti analisi di S. L. Seck, “Transnational labour law and the environment: Beyond the bounded autonomous worker”, in Canadian Journal of Law and Society, Vol. 33, No. 2, pp. 137– 157).

 

Tale chiave di lettura si rivela utile per una profonda comprensione di molte delle sfide che il diritto del lavoro è oggi chiamato ad affrontare. L’emergere di norme condivise e rapporti di solidarietà nell’ambito di collettività che si coagulano all’interno di confini anche inediti si pone, ad esempio, in stretta relazione con il processo di formazione di un corpo condiviso di conoscenze alla base dell’emergere delle nuove professioni che pongono importanti sfide regolatorie. Gli autori evidenziano poi come nei moderni mercati del lavoro le occupational communities riflettano tensioni legate alla transitorietà degli status nelle frequenti transizioni occupazionali sperimentate dai lavoratori. Esemplificative di tali tensioni sono le criticità che emergono nell’area del work-life balance: il bilanciamento tra esigenze lavorative e vita privata diventa strutturalmente temporaneo e transitorio (p. 625) e mai negoziabile una volta per tutte neanche per il singolo: a cambiare nelle transizioni biografiche e occupazionali è la stessa idea dei giusti confini tra lavoro e vita privata.

 

Particolarmente interessante per lo studio della dimensione collettiva delle relazioni di lavoro è poi la riflessione sul processo per cui le occupational communities (che come già spiegato possono avere un perimetro di settore, o di status occupazionale, o di mestiere o professione) si pongono come base per la formazione e l’articolazione di un interesse collettivo dei lavoratori. In particolari condizioni la coesione sociale e i rapporti di solidarietà che da esse promanano possono dar vita a specifiche forme di rappresentanza e ciò non riguarda solo le élites dei professionisti della conoscenza, ma anche le occupazioni a basso livello di qualificazione e precarie (p. 626).

 

Nella prospettiva tracciata da Dukes e Streeck, un altro strumento utile per superare la crisi della disciplina potrebbe essere la valorizzazione del profilo procedurale del diritto rispetto a quello sostanziale e ciò perché è necessario che la regolazione sia quanto più possibile aperta alla realtà dei moderni contesti produttivi e quindi delegata alle parti sociali (pp. 630-631). La progettazione di norme che deleghino ai rappresentanti delle comunità di lavoratori il compito di dettare sistemi di tutele trasversali se da un lato favorisce la creazione di un sistema normativo più equo e giusto (p. 632), non è tuttavia una strada agevole in quanto le occupational communities sono composte da lavoratori che sono titolari di condizioni contrattuali diverse (p. 633).

 

Sotto questo profilo, gli autori sembrano evocare il c.d. diritto riflessivo, quale strumentazione adatta a costruire questo nuovo sistema giuridico. In realtà, già la dottrina continentale aveva manifestato attenzione verso la crescente commistione tra fonte eteronoma e fonte autonoma, quale espressione della crisi del normativismo e dell’approdo dell’ordinamento giuridico al c.d. diritto procedurale, cioè un diritto di cui il legislatore si serve non per imporre “un assetto di interessi inderogabile ai privati” ma per organizzare “la regolazione, che viene lasciata ad altri soggetti o sistemi sociali” (M. D’Antona, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in DLRI, 1991, n. 51, p. 455), sia pure con riferimento alla gestione delle dosi di flessibilità nell’ambito delle tipologie contrattuali flessibili. Tuttavia, oggi quel modello di regolazione viene recuperato per essere posto davanti alla sfida di costruire un sistema di tutele che non guardi al contratto ma alla persona che lavora.

 

Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva che più o meno consapevolmente sembra essere adottata in misura crescente anche dalle parti sociali in Italia. Del resto, sono gli stessi Dukes e Streeck a includere la contrattazione collettiva nazionale nel discorso relativo alle prospettive evolutive della regolazione sul lavoro (p. 632). E proprio guardando a questo livello di contrattazione nel nostro Paese, ci pare di assistere non più soltanto alla delega di diverse materie alla contrattazione decentrata e alla previsione di clausole derogatorie, ma anche alla promozione di specifiche procedure (quali la costituzione di organismi o commissioni bilaterali) per l’analisi e gestione congiunta, nei territori e nelle aziende, delle sfide imposte sul lavoro dalle attuali trasformazioni (ADAPT, VI Rapporto sulla contrattazione collettiva in Italia (2019), 2020, pp. 7; 209-210). Dietro il sostegno a queste forme di confronto, sta la percezione, esplicitata in diversi contratti collettivi (si vedano l’ultimo rinnovo del CCNL Energia e petrolio e gli integrativi Luxottica e Lamborghini del 2019, nonché il cosiddetto “Patto della Fabbrica” del 2018), che la fissazione di regole sostanziali, tradizionalmente operata dall’autonomia collettiva, non sia adeguata a rispondere alle attuali spinte di modernizzazione, che per essere accolte, necessitano di processi decisionali flessibili, partecipati e sensibili al contesto.

 

Se quindi cresce la consapevolezza circa l’impossibilità di fissare dall’alto e anticipatamente regole che governino i processi di innovazione, si rafforza la necessità di favorire un’azione collettiva responsabile ed efficace a livello decentrato. Norme di tipo procedurale (come l’obbligo di analisi e gestione congiunta su alcuni temi) sembrano particolarmente funzionali allo scopo, ma per produrre tutele generalizzate (seppur diverse in relazione al contesto), esse richiedono alle parti sociali competenze analitiche e progettuali ben maggiori di quelle necessarie all’applicazione di precise regole sostanziali. E non è un caso che già in alcuni contratti nazionali (come nell’ultimo rinnovo del CCNL Chimico-farmaceutico) siano state predisposte vere e proprie linee guida, allo scopo di orientare, pur senza imporre, i contenuti della regolazione decentrata su alcuni temi. In generale, se le attuali trasformazioni del lavoro daranno ragione alle previsioni degli autori, portando a valorizzare la riflessività del diritto e le regole procedurali, sarà necessario porre attenzione alla formazione delle parti sociali, per scongiurare il rischio che la crisi del diritto sostanziale porti un indebolimento delle tutele.

 

A fronte dei multiformi spunti tematici che la chiave di lettura proposta da Dukes e Streeck fornisce nell’ambito della analisi e della ricostruzione dei processi di normazione in corso, anche e soprattutto nell’ottica della costruzione di una integrazione virtuosa tra prospettive disciplinari diverse, si può, però, rilevare come il contributo degli autori sembri fermarsi alle fasi preliminari (di strutturazione teorica di una metodologia di analisi) di tale processo, rimettendo a future ricerche l’effettiva implementazione. In questa prospettiva, l’adozione di una tale metodologia di ricerca potrebbe esporre al rischio di una indagine che si arresta alle porte della riflessione giuslavoristica – quale utile supporto, ma non come sua parte integrante – laddove non la si spinga nella dimensione di analisi della efficacia ed effettività dei processi di normazione o, ancora, delle opzioni di politica del diritto per regolare, promuovere o, comunque, creare idonee condizioni di contesto affinché i processi spontanei e le tendenze rilevate nelle righe precedenti possano esplicarsi positivamente.

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Research Fellow

@ilaria_armaroli

 

Lilli Casano

ADAPT Research Fellow

@lillicasano

 

Emanuele Dagnino

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@EmanueleDagnino

 

Giovanni Piglialarmi

Ricercatore (RTDA)
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

 

La regolazione del lavoro tra norme sociali e giuridiche. A proposito di una proposta metodologica per superare le secche della crisi del diritto del lavoro