La rappresentanza del lavoro alla sfida della comunicazione neo-populista

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Bollettino ADAPT 20 maggio 2019, n. 19

 

Quella che sarebbe dovuta essere la stagione politica della definitiva messa ai margini dei corpi intermedi ha invece offerto alle parti sociali italiane una chiara opportunità di riscatto. Con le diverse iniziative messe in campo a partire dallo scorso febbraio, alcune delle quali anche congiunte (vedi l’appello per l’Europa pubblicato l’8 aprile scorso e le manifestazioni nel settore edile), sindacati e associazioni datoriali hanno dato prova di saper elaborare una risposta alla sfida lanciata loro su più fronti in nome di una più generale rappresentanza del ‘popolo’. Basti pensare alle misure che contribuiscono a ridimensionare il peso e il ruolo della rappresentanza del lavoro quali il Reddito di Cittadinanza (in quanto politica di reddito), la proposta di legge per l’istituzione del salario minimo e del referendum propositivo, e l’attacco alle c.d. “pensioni d’oro” dei dirigenti sindacali.

 

Le organizzazioni di rappresentanza hanno d’altronde agito concentrandosi sui temi propri della loro giurisdizione “naturale”, quelli della crescita economica e del lavoro, orfani in questo frangente di una proposta politica articolata. Si tratta paradossalmente proprio di quel terreno sul quale le c.d. forze neo-populiste hanno costruito il loro consenso, non solo nel nostro Paese. Se infatti attorno alla nozione di “populismo” non vi è ancora univoco accordo tra gli studiosi, la maggioranza di essi conclude che questi movimenti hanno attratto il voto di quanti negli ultimi anni hanno sperimentato direttamente il crescente divario tra i salari e i livelli di benessere, specialmente nelle aree più depresse (per una diesamina della letteratura si veda F. Nespoli, When labour goes populist. How italian populist leaders frame the labour market and industrial relations on social media, di prossima pubblicazione su E-Journal of International and Comparative Labour Studies).

 

Ciò non basterebbe però a spiegare né l’ascesa di queste forze, né il cambiamento nei flussi di voto che vi ruotano attorno, iniziati già nei primi anni Novanta. Il fenomeno deve anzi essere osservato secondo una prospettiva particolare, oggi imprescindibile quando si parla di questioni politiche, ma particolarmente pertinente nel caso in questione: quella della comunicazione. Molti studi recenti hanno infatti inteso il populismo come una “espressione di comunicazione politica(in particolare De Vreese, Esser, Aalberg, Reinemann, and Stanyer 2017, 2018). E se a ciò si aggiunge il dato dell’anti-pluralismo, che secondo il teorico Jan-Werner Muller (What is Populism?, 2016) accomuna le forze populiste, si capisce l’origine della retorica populista secondo la quale “laddove le disuguaglianze aumentano, la rappresentanza non è la soluzione, ma parte del problema”. La rappresentanza non realizzerebbe cioè l’organizzazione collettiva degli interessi, ma sarebbe espressione di un establishment elitario, portatore di rendite di posizione e responsabile dell’immobilismo socio-economico.

 

La rappresentenza del lavoro deve quindi una volta di più farsi comunicazione, non solo cioè per le necessità imposte dall’epoca in cui vive, quella della disintermediazione comunicativa, ma per competere con le semplificazioni retoriche che si muovono proprio sul suo stesso terreno. Tanto più che oggi diverse rilevazioni statistiche, da quelle del Consiglio Europeo sulle Relazioni Estere passando da quelle dell’Istat sulla fiducia di cittadini imprese, fino a giungere al recente rapporto Censis-Conad, ritraggono una maggioranza della cittadinanza preoccupata per la situazione economica del Paese. E ciò proprio nel momento nel quale una congiuntura di stagnazione economica conclamata sta costringendo le forze di maggioranza alla riproposizione dello schema più tradizionale del populismo: quello secondo il quale gli organismi internazionali e sovranazionali complottano per il sabotaggio di un esecutivo sovrano.

 

Il giovane governo bipartisan italiano, laboratorio osservato con curiosità da tutti gli studiosi di scienze politiche che si dedicano ai populismi, potrebbe quindi essere entrato prematuramente in quella fase post-insediamento che secondo Pappas e Kriesi (2015, Populism and crisis: A fuzzy relationship. European populism in the shadow of the Great Recession, 303-325) conduce i partiti populisti a “una moderazione del loro discorso” e a comportarsi “in modo più simile ai partiti tradizionali”.

 

Evitato quindi, almeno per ora, il pericolo del definitivo ridimensionamento politico, restano diverse questioni aperte. Innanzitutto la nuova centralità riconosciuta da osservatori e addetti ai lavori, non si tradurrà automaticamente in consenso a livello dell’opinione pubblica, nei territori, tra i settori. Almeno non senza che un messaggio efficace intercetti la percezione del clima economico dei cittadini offrendo una lettura credibile e comprensibile dei cambiamenti del mondo del lavoro e proponendo quindi nuovi legami per un nuovo contratto sociale. Come raccontare per esempio una visione precisa di società, che si contrappone sia alle logiche conflittuali tra élite e popolo, sia alla prefigurazione di una società senza lavoro, dove l’impresa vivrà di puro capitale?

 

In campo sindacale a ciò si aggiunge il fatto che a livello comparato l’Italia mostra l’età media degli iscritti al sindacato più alta tra i 34 Paesi oggetto del recente monitoraggio dell’ETUI. Dato questo che mette in pericolo la stabilità storica del tasso di sindacalizzazione (il nostro Paese  è uno dei pochi che negli ultimi 15 anni non ha visto diminuire la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato). Il nodo del rapporto tra giovani e sindacato si rivela quindi strategico per la sopravvivenza capillare della rappresentanza organizzata nei territori e nei settori. Una questione che, insomma implica di per sé un’operazione di ascolto e un’innovazione di linguaggio necessarie a conoscere gli interessi delle nuove tipologie di lavoratori e di imprese, per permettere loro di identificarsi in una organizzazione e magari confrontarsi mettendo al centro la definizione di rapporti sociali ed economici condivisi. Non tanto per rendere negoziabili valori ritenuti fondamentali, quanto per scoprire dove e come si possono articolare oggi.

D’altronde la promozione di una giusta transizione socio-economica non può realizzarsi, a rigore, senza implicare una transizione interna agli stessi copri intermedi. A meno di non pensare che la rappresentanza possa vivere di puro discorso, tentazione già più volte percorsa dai partiti, alla ricerca del consenso a breve termine.

 

Francesco Nespoli

ADAPT Research Fellow

@Franznespoli

 

La rappresentanza del lavoro alla sfida della comunicazione neo-populista
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