La prosecuzione dell’attività lavorativa: tra lavoro agile e controlli

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Bollettino speciale ADAPT 18 marzo 2020, n. 3

 

In un precedente intervento sul tema – quando ancora molte delle misure più restrittive dovevano essere attuate – si aveva avuto modo di sottolineare come uno dei primi interventi diretti ad arginare la diffusione del Coronavirus fosse stato quello relativo alla promozione del lavoro da remoto e, in particolare, la semplificazione delle modalità di adesione al c.d. lavoro agile. In questo breve approfondimento si riprendono alcune delle considerazioni svolte in quella sede, aggiornando la riflessione rispetto all’evoluzione della situazione emergenziale e delle discipline volte a contrastarne gli effetti.

 

A seguito di un susseguirsi di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che si sono interessati della tematica in attuazione del decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, sostituendosi – talvolta parzialmente – gli uni agli altri, attualmente il quadro di riferimento per quanto concerne l’utilizzo della modalità di lavoro agile nell’ambito di questo momento emergenziale si sostanzia prevalentemente in quanto disposto dal DPCM del 11 marzo 2020 e dal DPCM 8 marzo 2020, cui occorre aggiungere – oltre ai riferimenti ad alcuni specifici interventi per il pubblico impiego (direttive del Ministero della Pubblica Amministrazione) quanto previsto all’interno del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, stipulato dalle Parti sociali e da ultimo quanto sancito dal d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. Cura Italia.

 

A fronte di questa evoluzione normativa si possono segnalare due tendenze rispetto all’utilizzo del lavoro agile: in primo luogo, a partire dal DPCM 1 marzo del 2020, l’estensione della disciplina promozionale per il lavoro agile a tutto il territorio nazionale e a tutto il periodo previsto di emergenza sanitaria; in secondo luogo, la maggiore cogenza rispetto all’utilizzo di questa modalità di lavoro, salvo che la stessa non sia incompatibile con il tipo di attività da prestare.

 

Partendo da quest’ultimo profilo – prima di tornare sulle modalità applicative della disciplina semplificata – occorre prendere in considerazione quanto statuito dall’art. 1 co. 1 n. 7, del DPCM 11 marzo 2020, laddove si prevede che «in ordine alle attività produttive e alle attività professionali si raccomanda che: a) sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza». Si tratta di una previsione che trova poi espresso riconoscimento e una certa enfasi, all’interno del Protocollo sopra citato, che nel richiamare quanto affermato dal DPCM, ricorda come «per tutte le attività non sospese si invita al massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile».

 

L’utilizzo del lavoro agile potrà avvenire in base a quanto stabilito dall’art. 2 co. 1 lett. r): nonostante il DPCM 11 marzo 2020 preveda che «cessano di produrre effetti» le misure di cui al DPCM 8 marzo 2020, lo fa con espressa clausola di «incompatibilità» delle stesse rispetto al nuovo DPCM. Da ciò deriva, chiaramente, che tale disposizione – essendo certamente coerente e compatibile con le nuove misure – si deve ritenere pienamente efficace. Anzi, per come è scritta, essa sarebbe destinata a perdurare anche successivamente alla scadenza del periodo di efficacia del DPCM 11 marzo 2020, dal momento che esso ha durata fino al 25 marzo, mentre la previsione di cui all’art. 2 co. 1 lett. r) fino al termine del periodo di emergenza (6 mesi dalla deliberazione del Consiglio dei ministri 31 gennaio 2020).

 

Ciò detto quanto al rapporto tra le fonti, sul piano operativo restano valide le seguenti indicazioni.

La semplificazione riguarda il venir meno dell’obbligo relativo alla stipulazione di un accordo individuale per l’adesione alla modalità di lavoro agile, di norma previsto ai sensi dell’art. 18 della l. n. 81/2017. Di conseguenza, il lavoro agile potrà essere unilateralmente disposto dal datore di lavoro ai fini di garanzia della salute dei propri lavoratori, nell’adempimento del suo generale obbligo di tutelare la salute e sicurezza del lavoratore, come, peraltro, da previsione del DPCM 11 marzo 2020. Nell’agevolare l’accesso alla modalità di lavoro agile, la disposizione prevede, ad ogni modo, il rispetto dei principi dettati dalle disposizioni di cui agli articoli da 18 a 23 della l. n. 81/2017: di conseguenza la prestazione in lavoro agile dovrà essere gestita secondo quei principi e si rende necessario all’interprete capirne la declinazione.

 

Premesso che la scelta del legislatore è stata quella di puntare sul lavoro agile in luogo del telelavoro anche in una situazione in cui – seppur in un limitato arco di tempo – lo svolgimento da remoto potrà essere regolare e continuativo: si può ritenere in via interpretativa che l’alternanza si intenderà come rispettata nell’ottica della occasionalità della prestazione da remoto (legato alla emergenza sanitaria) e del rientro alla normale attività in ufficio a seguito del periodo.

 

Quanto agli altri principi della l. n. 81/2017, venendo meno il riferimento all’accordo per la gestione delle diverse dinamiche, occorre riferirsi ai principi generali della disciplina, tenendo presente che, mentre molte aziende si erano avvicinate a questa modalità di lavoro in passato, per alcune organizzazioni si tratta di una assoluta novità.

 

L’articolato normativo porta a porre particolare attenzione ai seguenti aspetti:

  • esercizio dei poteri datoriali: devono essere esercitati secondo i limiti di legge, ancorché per il tramite di strumenti digitali;
  • limitazione del tempo di lavoro e disconnessione: la disciplina del lavoro agile prevede che esso possa svolgersi nel rispetto dei limiti massimi di durata giornalieri e settimanali previsti; per comodità si può fare riferimento alla correlazione temporale con il normale orario di lavoro;
  • luogo di lavoro: dal momento che l’obiettivo è quello della maggiore tutela della salute dei lavoratori, dovranno escludersi luoghi pubblici o aperti al pubblico e individuare la possibilità di lavoro dal domicilio o da altro luogo di pertinenza del lavoratore;
  • strumenti di lavoro: non esiste un vincolo di consegna degli strumenti di lavoro e di conseguenza i lavoratori potranno usare anche il PC personale, per esempio laddove l’azienda non disponga di device portatili idonei o sufficienti e ritenga che i dati aziendali possano essere gestiti anche su un supporto privato.

 

Trattandosi di esigenze straordinarie e provvisorie, non sembrano applicabili le discipline riguardanti la durata a tempo indeterminato (automaticamente il limite corrisponderà al termine del periodo di emergenza o al diverso termine che dovesse prevedersi) e con riferimento al recesso eccezionale parrebbe il ricorso al giustificato motivo, dal momento che l’altro bene sul piatto non è solo il diritto a proseguire con la modalità di lavoro, ma il diritto alla salute.

 

I contenuti precedenti sono di norma determinati all’interno dell’accordo individuale; con il venir meno dell’accordo individuale si potrebbe ritenere che nell’ottica di semplificazione massima dell’utilizzo dello strumento, non sussista un onere di comunicazione e specificazione dei diversi aspetti nelle stringenti modalità previste dall’accordo. Si può, d’altro canto, osservare come – soprattutto in contesti produttivi in cui molte sono le persone coinvolte nelle attività in modalità di lavoro agile oppure dove questa rappresenta una assoluta novità – la predisposizione di una minima scheda informativa riguardante le materie sopra citate possa essere utile.

 

Con riferimento, poi, agli obblighi di informativa in materia di salute e sicurezza, previsti dall’articolo 22 della l. n. 81/2017 potranno essere assolti – per espressa previsione del DPCM – in via telematica e anche facendo riferimento ai materiali disponibili sul sito INAIL.

 

Quanto alla comunicazione dell’avvio del lavoro agile, dopo alcuni giorni di incertezza rispetto alla applicabilità della procedura di comunicazione di cui all’art. 23 della l. n. 81/2017, è stato il Ministero del Lavoro a fornire indicazioni rispetto alla procedura semplificata di deposito, ispirata al principio di cui alla l. n. 81/2017, ma in assenza del relativo accordo.

 

Quanto poi alla interazione tra questa disciplina emergenziale e provvisoria e le eventuali discipline collettive (nazionali o aziendali) e individuali relative al lavoro agile o, eventualmente, anche al telelavoro, la sopravvenienza di una disciplina a breve termine e con caratteri di specialità dovuti ad una situazione contingente porta a ritenere azionabile la modalità di lavoro agile secondo la procedura semplificata e in assenza di accordo individuale a prescindere dalle previsioni e dei vincoli (spesso temporali) previsti nella contrattazione collettiva. Allo stesso modo, con riferimento ai lavoratori che già usufruiscono della modalità di lavoro agile in virtù della stipulazione di un accordo di lavoro agile, è ragionevole ritenere che non sarà necessario addivenire ad un accordo di modifica di quello vigente, potendosi applicare la disciplina emergenziale in via unilaterale, con le necessarie modifiche rispetto a quanto pattuito tra le parti e, in particolare, rispetto alla estensione temporale e alla possibile limitazione spaziale della prestazione.

 

Infine, come si è anticipato in tema di lavoro agile è intervenuto nuovamente il legislatore con il d.l., Cura Italia. In questa sede, fermo restando il principio di massima applicazione della misura, ci si è preoccupati di inserire dei criteri per rafforzare la posizione di soggetti particolarmente vulnerabili: diritto al lavoro agile fino al 30 aprile, salvo incompatibilità, per chi è in condizioni di disabilità o di assistenza a disabile e precedenza nell’accesso alla modalità di lavoro per soggetti affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa. Si tratta di previsioni finalizzate a gestire lo spostamento di massa verso il lavoro da remoto laddove, per limiti logistici o organizzativi (si pensi all’assenza dei software necessaria sui laptop personali), non sia possibile garantirlo a tutto il personale con mansioni potenzialmente gestibili a distanza.

 

Oltre a questa disciplina, il d.l. n. 18/2020 si interessa nello specifico della disciplina del lavoro agile all’interno delle pubbliche amministrazioni. Si prevede, infatti, che il lavoro agile sia la modalità ordinaria di lavoro all’interno delle PA e che, al fine di agevolarne l’adozione, non sia necessaria la stipulazione di accordi e nemmeno la comunicazione ex art. 23 l. n. 81/2017. Inoltre, si sancisce la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici personali. Infine, si occupa anche dei profili di incentivazione economica e organizzativa (gruppo di supporto digitale) funzionali all’adozione di tale modalità lavorativa nell’ambito delle pubbliche amministrazioni per i servizi ai cittadini

 

Ciò detto rispetto alle modalità di lavoro da remoto, ci si vuole in conclusione occupare di uno specifico profilo connesso alle attività di chi non potrà usufruire di modalità di lavoro agile e sarà, quindi, salvo sospensione dell’attività lavorativa o ferie, tenuto a recarsi in azienda. In quest’ottica emerge un profilo di particolare interesse che riguarda il bilanciamento tra gli obblighi datoriali di tutela dei lavoratori e il diritto dei lavoratori alla protezione dei propri dati personali (in particolare dati sanitari o comunque extra-lavorativi).

 

Sul punto era intervenuto il Garante Privacy con una posizione chiara e restrittiva rispetto alle prassi datoriali di acquisizione di informazioni relative allo stato di salute dei lavoratori o alla loro esposizione al rischio di contagio (presenza in territori ad alta diffusione). Nel merito il Garante aveva ricordato come il sistema di prevenzione rispetto alla diffusione del Coronavirus sia gestito dalle autorità sanitarie pubbliche, con specifici obblighi di comunicazione da parte dei cittadini e relativi oneri di informazione ai datori di lavoro interessati per quanto attiene misure contenitive o stati di malattia dei propri dipendenti. Sottolineava, quindi, il Garante che «i datori di lavoro devono invece astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa». A ciò aggiungeva che resta, comunque, in capo al lavoratore l’obbligo di informare il datore di lavoro di eventuali pericoli di cui venga a conoscenza – tra cui quelli relativi alla diffusione del contagio – nonché gli obblighi datoriali connessi alla comunicazione della variazione del rischio biologico (se necessario) e alla sorveglianza sanitaria per il tramite del medico competente, applicabile ai lavoratori più esposti.

 

Rispetto a tale posizione, occorre notare come in una diversa direzione vada quanto previsto all’interno del Protocollo stipulato dalle parti sociali. Due in particolare sono le previsioni che rilevano in questo ambito, entrambi al punto 2 dell’intesa: si prevede la possibilità di svolgere rilevamenti della temperatura corporea prima dell’ingresso al lavoro nonché la possibilità di chiedere dichiarazioni del rispetto dei requisiti relativi all’isolamento sociale («non provenienza dalle zone a rischio epidemiologico e l’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati positivi al COVID-19»).

 

Dalla lettura del documento pare emergere come la legittimità di tali trattamenti sia riconnessa all’adempimento di un obbligo di legge in capo ai datori di lavoro (ovvero all’art. 9 co. 2 lett. b) e al’art. 6 co. 1 lett. c) del GDPR, per i dati non relativi alla salute): si prevede, infatti, che «quanto ai contenuti dell’informativa, con riferimento alla finalità del trattamento potrà essere indicata la prevenzione dal contagio da COVID-19 e con riferimento alla base giuridica può essere indicata l’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM 11 marzo 2020 e con riferimento alla durata dell’eventuale conservazione dei dati si può far riferimento al termine dello stato d’emergenza».

 

Si tratta di un assetto di interessi su cui si troverà ad esprimersi il Garante Privacy. In prima battuta si può osservare come sarebbe stato preferibile affrontare la tematica direttamente all’interno di un DPCM che sancisse chiaramente quali modalità di acquisizione di informazioni relative al rischio da Coronavirus siano accettabili e da applicare, dichiarandone la validità in prospettiva emergenziale e creando una valida base giuridica. Si è, invece, lasciato il campo ad una previsione che pur facendosi forza su un Protocollo stipulato dalle parti sociali, che può, quindi, essere inteso come contratto collettivo valido ai sensi dell’art. 9 co. 2 e art. 88 del GDPR, potrebbe non essere idoneo a configurare una fonte di autorizzazione del trattamento nel rispetto delle necessarie tutele previste dalla normativa euro-unitaria.

 

Emanuele Dagnino

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@EmanueleDagnino

 

La prosecuzione dell’attività lavorativa: tra lavoro agile e controlli
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