La conversione in legge del Decreto Ristori: un’altra occasione sprecata per chiarire le eccezioni al divieto di licenziamento?

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Bollettino ADAPT 11 gennaio 2021, n. 1

 

L’art. 12, comma 1 del d.l. n. 137/2020 (c.d. “Decreto Ristori”) – integralmente confermato dalla dall’art. 11, comma 11 della relativa legge di conversione n. 176/2020 – ha riproposto in toto, all’interno dell’ormai copiosa normativa emergenziale “anti-Covid”, i casi di eccezione previsti dal d.l. n. 104/2020 rispetto alle preclusioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo, disciplinati precedentemente anche dal d.l. n. 18/2020.

 

La succitata norma, difatti, prevede – in deroga alla disciplina emergenziale – la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro nei casi di: a) licenziamento motivato dalla cessazione definitiva dell’attività di impresa, conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione (anche parziale) dell’attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.; b) accordo collettivo aziendale, quando le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale stipulino con il datore di lavoro un accordo collettivo aziendale d’incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro; c) fallimento, quando non è previsto l’esercizio provvisorio dell’impressa ovvero ne sia disposta la cessazione.

 

Le summenzionate fattispecie, invero, hanno suscitato non pochi problemi dal punto di vista applicativo. In limine, con riferimento alla prima tipologia di eccezione, appare di non facile interpretazione la locuzione “senza continuazione, anche parziale, dell’attività. Invero, a seguito della riforma del diritto societario del 2003, l’art 2487 c.c. – norma dettata in tema di scioglimento e liquidazione delle società di capitali – permette che la procedura liquidatoria possa essere realizzata sia mediante esercizio provvisorio dell’impresa, sia avendo come finalità la cessione dell’azienda, di un ramo o di singoli beni. In tali ipotesi, pertanto, non sembrano esserci dubbi sulla non applicazione delle deroghe de quibus.

 

Risulta, invece, di difficile definizione la circostanza in cui la procedura di liquidazione si estenda per un lasso di tempo non breve, così che l’azienda non può far a meno di compiere – in quel periodo – attività inerenti al suo oggetto sociale, sebbene finalizzate alla cessazione dell’attività di impresa. In tali ipotesi, di conseguenza, sembra condivisibile il pensiero di chi ritiene che la disposizione di cui al d.l. n. 137/2020 non possa di certo pretendere un’istantanea cessazione di ogni attività subito dopo la delibera di messa in liquidazione (cfr. sul punto D. Ceccato, S. Carrà, Licenziamenti, liquidazione e prosecuzione parziale dell’attività, in GLav, 2020, n. 38, p. 37 e ss.).

 

A ogni modo, sempre con riferimento a tale ipotesi di deroga, anche l’utilizzo del termine “impresa” ha suscitato qualche perplessità, in quanto lo stesso non può che essere connesso al concetto di imprenditore di cui all’art. 2082 c.c., secondo cui acquista tale qualità chi “esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Di conseguenza, se volessimo interpretare in maniera rigida la norma, di certo non potrebbe beneficiare di questa eccezione chi non rientra nell’ambito di applicazione di cui all’art. 2082 c.c.

 

Inoltre, analizzando la terza fattispecie di esclusione (lett. c), potrebbe rilevarsi non coerente il richiamo alla sola ipotesi del fallimento. Come noto, difatti, esistono altre procedure concorsuali in cui non è previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne viene disposta la cessazione. Ad esempio, appare di difficile spiegazione l’applicabilità della normativa de qua in caso di fallimento e non in caso di concordato preventivo “liquidatorio”. Si tratta, in effetti, di una forma di liquidazione del patrimonio dell’imprenditore che spesso non differisce – nell’esito e nelle modalità – da quella che si otterrebbe in caso di procedura fallimentare. Infine, anche nei casi di amministrazione straordinaria in cui il Tribunale Fallimentare – ai sensi dell’art. 73 del D. Lgs. n. 270/1999 – dichiari la cessazione dell’esercizio di impresa, una non praticabilità di tale deroga appare di certo non congruente alla ratio della disposizione legislativa.

 

Aniello Abbate

ADAPT Junior Fellow

 

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