International Symposium on the Regulation of Occupations: una riflessione sulle sfide attuali

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Il 15 e 16 marzo, la London School of Economics ha ospitato un simposio organizzato dalla British Journal of Industrial Relations sulla regolamentazione delle professioni (in inglese, occupational regulation), che ha riunito esperti di vari campi della conoscenza (economia, sociologia e diritto) per fornire un approccio interdisciplinare per la valutazione degli effetti di questo strumento nel mercato del lavoro.

 

Ma che cosa si intende esattamente per occupational regulation? Anche se non esiste una definizione universale (perché questa dipende dagli standards di ogni paese), quella più adeguata è: “occupation regulation denotes the use of standards, typically involving qualification requirements, applied to a particular job”, stando alla definizione fornita da Caroline Lloyd, Jonathan Payne, “Licensed to skill? The impact of occupational regulation on fitness instructors”, European Journal of Industrial Relations, 2017, 24(1), p. 3 (un’altra definizione è fornita, ad esempio, in John Forth et al., Understanding Occupational Regulation, Evidence Report 67, 2013, p. vii).

 

Durante la conferenza, il dibattito si è focalizzato sugli schemi di licenza e di certificazione, che rappresentano i due strumenti principali in materia, e i relativi impatti sul mercato del lavoro: più specificamente è stato dibattuto l’effetto sull’accesso al mercato del lavoro, sui salari, sulle competenze dei professionisti e sulla mobilità dei lavoratori all’interno del territorio. Va anche ricordato che negli Stati Uniti nel 1960 i professionisti con licenza rappresentavano solo il 5% della forza lavoro, mentre nel 2013 erano circa il 30% (Morris M. Kleiner, Reforming Occupational Licensing Policies, The Hamilton Project Discussion Paper 2015-01). Nei paragrafi che seguono, l’obiettivo è quello di trattare i temi principali che sono stati dibattuti durante il simposio, fornendo gli ultimi dati e le principali conclusioni a cui si è giunti nel dibattito. Ogni paragrafo sarà composto da una breve introduzione del tema trattato, dalle principali conclusioni nonché da alcuni suggerimenti.

 

Il primo punto importante nella discussione sull’impatto della regolamentazione delle professioni è la conferma di una restrizione sul lato dell’offerta di lavoro, proprio a causa delle licenze, le quali comportano la fissazione di requisiti per l’accesso alla professione, escludendo di fatto alcuni professionisti dal mercato. Dal dibattito avuto al simposio, è apparso chiaro che le licenze hanno un effetto sull’accesso ad una professione, però rimane dubbio se tale strumento abbia un impatto anche nell’equilibrare il numero di professionisti in una professione (cioè, il numero medio di professionisti in una occupazione, vedi anche White House Report, Occupational Licensing: a framework for policymakers, giugno 2015, p. 14).

 

La letteratura ha da tempo analizzato l’effetto delle licenze professionali sui salari, a seguito della limitazione dell’offerta di lavoro e la restrizione all’accesso alla professione. Fino a questo punto, la letteratura infatti ha indicato che in un’occupazione regolamentata da licenza si ha un guadagno in termini orari dall’8% al 15% rispetto a occupazioni senza licenza, un fenomeno che in letteratura di solito è indicato come wage premium (vedi Morris M. Kleiner, The influence of occupational licensing and regulation, IZA World of Labor Report 392, 2017). I dati forniti nel corso della conferenza hanno però indicato l’attuale tendenza verso una mitigazione del premio salariale tra occupazioni regolate da un sistema di licenze e occupazioni non regolate: gli studi che utilizzano dati europei dimostrano, infatti, che il premio salariale era al 15% nel 2010, al 7% nel 2016 e i dati più recenti mostrano un premio salariale pari al 4%.

Questi nuovi dati mettono in mostra la dubbia adeguatezza di quella teoria che cerca di giustificare la regolamentazione delle professioni, visto che parte della letteratura sostiene che la creazione della stessa trova invece spazio a causa di pressioni da parte di gruppi professionali, che, allo scopo della ricerca di una maggiore rendita, hanno come obiettivo quello di restringere la concorrenza e, conseguenzialmente, aumentare i salari.

 

Nello stabilire i requisiti necessari per l’ingresso in una determinata attività professionale – ad esempio attraverso il requisito minimo di un apprendistato o di un titolo accademico – si ritiene che la licenza è quindi uno strumento idoneo al fine di incrementare il livello delle competenze che i professionisti apportano al mercato del lavoro. Questo è stato ribadito durante il simposio e  i recenti studi dimostrano che le licenze sono di solito associate ad un incremento di specifiche forme di titoli di studio, come ad esempio titoli professionali e lauree magistrali (Morris M. Kleiner, Evan J. Soltas, Occupational licensing, labor supply, and human capital, SSRN Paper March 2018, p. 13).

 

L’analisi degli impatti della regolamentazione delle professioni non si limita soltanto a questi problemi, in quanto la questione può interessare anche il tema dell’orario di lavoro. La logica è la seguente: se la disciplina delle professioni causa una restrizione a monte di professionisti, sarebbe prevedibile assistere ad un aumento delle ore di lavoro effettuate da coloro che rimangono sul mercato, in quanto solo loro sono in grado di soddisfare la richiesta di lavoro.

Tuttavia, durante il simposio è stato menzionato che i dati non hanno evidenziato causalità tra regolamentazione e varianze in termini di ore di lavoro (ad esempio, questa questione è stata trattata in uno studio condotto da Morris M. Kleiner, Evan J. Soltas, cit., p. 13,  i quali hanno evidenziato che, anche se c’è stato un leggero aumento delle ore di lavoro a settimana – da una a tre ore per settimana – l’effetto delle licenze sul  numero totale delle ore di lavoro era piuttosto insignificante). Se è vero che la restrizione del numero di professionisti disponibili porta ad una diminuzione dell’offerta di lavoro, è anche vero che il premio salariale origina, a sua volta, una diminuzione della domanda.

 

L’argomento oggetto di discussione durante il simposio non è affatto sconnesso dai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, in particolare quelli derivanti dalla rivoluzione tecnologica. Considerando che le piattaforme online della gig economy facilitano l’accesso al mercato, è importante analizzare se queste portano ad un cambio di paradigma, in particolare con riferimento alla efficacia della regolamentazione delle professioni. L’esempio più frequente coinvolge la professione dei tassisti: al fine di diventare tassista, negli Stati Uniti, è essenziale che il professionista richieda una licenza rilasciata a livello locale. Ma con l’avvento della gig economy, i professionisti interessati hanno la possibilità di ricorrere a piattaforme online come Uber e Lyft e quindi superare tali restrizioni regolative (Morris M. Kleiner, Regulating access to work in the gig labor market, W.E. Upjohn Institute Employment Research, luglio 2017). Lo stesso si può ovviamente dire per altre piattaforme, come TaskRabbit, il cui oggetto è lo scambio di servizi di riparazione e manutenzione, per i quali in alcuni casi potrebbe essere necessaria una licenza (ad esempio, in Germania c’è una restrizione di entrata per gli idraulici).

 

Il simposio è stato particolarmente importante per il superamento di alcuni preconcetti in materia di regolamentazione delle professioni e dei suoi effetti sul mercato del lavoro, che a sua volta ha un impatto nel dibattito teorico. Quali sono quindi le prospettive per il futuro? La tendenza principale, seguendo l’analisi costi-benefici delle licenze, è la de-regolamentazione, che può verificarsi in forme diverse: mentre alcuni prevedono la completa deregolamentazione, altri esprimono la loro preferenza per una sostituzione dei sistemi di licenze con sistemi di certificazione delle competenze. Quest’ultima posizione è stata prevalentemente adottata dalla letteratura recente. Da un lato, la certificazione non provoca una restrizione di accesso al mercato del lavoro e di conseguenza non determina l’esclusione di specifici gruppi sociali (alcune licenze in alcune occupazioni, infatti, portano all’esclusione delle donne, degli immigrati e di gruppi razziali dal mercato del lavoro). D’altra, la certificazione rimane associata ad elevati standard professionali e alla dimostrazione di professionalità e al rispetto degli standard minimi di qualità dei servizi.  I sistemi di certificazione delle competenze, infatti, ricalcano determinati aspetti positivi del sistema delle licenze (ovvero, l’incentivo ad investire sulle competenze e sull’educazione da parte dei professionisti), ma allo stesso tempo hanno meno costi sociali.

 

Di conseguenza, i prossimi passi della ricerca in materia si concentreranno sulla adeguatezza del passaggio dai sistemi delle licenze verso sistemi di certificazione delle competenze (con l’analisi dei conseguenti effetti sul mercato del lavoro), se non comunque verso schemi meno restrittivi, quali l’accreditamento o la registrazione.

 

Diogo Silva

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@DiogoD_Silva

 

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