Infortunio sul lavoro: il datore non è responsabile se il dipendente è esperto e formato in sicurezza

Con la pronuncia n. 8883 del 3 marzo 2016, la Suprema Corte di Cassazione coglie l’occasione per ripercorrere i più recenti orientamenti giurisprudenziali che interpretano la normativa del T.U. per la sicurezza sul lavoro conformemente al principio c.d. di “autoresponsabilità del lavoratore”, che impone ai lavoratori subordinati di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e, anzitutto, di agire con diligenza, prudenza e perizia: per tal via si cerca di potenziare, non soltanto il principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale, ma il ruolo di extrema ratio del diritto penale stesso.

 

Consultando il D.Lgs. 81/2008 e le novità introdotte dal D.Lgs. 106/2009 si comprende ictu oculi come questi abbiano recepito molteplici concetti già precisati dal D.Lgs. 626/1994, vale a dire tutte quelle norme recanti la prevenzione del rischio in azienda che implicano necessariamente la partecipazione del datore di lavoro e dei lavoratori nell’adozione degli adempimenti e delle misure di prevenzione e protezione, volte a tutelare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Figura cardine cui incombe l’obbligo di garantire e osservare determinati standard di sicurezza sul lavoro è il datore di lavoro. Questo organizza l’attività d’impresa per portare a termine il lavoro che dovranno svolgere i dipendenti, i quali devono attenersi a quanto richiesto ma, nel fare questo, il datore di lavoro ha l’obbligo di salvaguardarne l’integrità psicofisica, eliminando o, qualora non sia possibile, riducendo al minimo i rischi che possano procurare loro dei danni.

 

Al datore di lavoro sono equiparati i dirigenti ed i preposti che organizzano tutte le attività svolte dai lavoratori, per i quali il T. U. per la sicurezza sul lavoro stabilisce che, oltre ad adottare tutte le misure di sicurezza necessarie per la tutela dei dipendenti, devono anche informarli sui rischi specifici cui essi sono esposti, insegnare le norme fondamentali di prevenzione e addestrarli all’utilizzo corretto dei mezzi e degli strumenti di protezione. Il datore di lavoro, in virtù di queste sue responsabilità, deve anche adempiere all’obbligo di porre il lavoratore nella condizione d’utilizzare macchinari, utensili e strumentazioni che non presentino nessun rischio per la salute e l’integrità; questo si affianca a quello d’informare e formare i dipendenti circa i pericoli che possono derivare da un utilizzo non corretto dei macchinari e degli utensili.

 

Oltre al dovere d’informare, al datore di lavoro viene attribuito il compito di vigilare e verificare il rispetto delle norme antinfortunistiche da parte dei lavoratori. Il datore di lavoro, dunque, svolge un duplice ruolo: da un lato deve garantire una corretta informazione ed un esatto addestramento, dall’altro deve osservare attentamente che quanto insegnato sia poi messo in pratica dai suoi lavoratori.

 

Quanto alla specifica vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte, essa riguardava un elettricista esperto (anche in ambito di sicurezza sul lavoro, tanto da essere nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda) chiamato a svolgere un lavoro per mezzo di un elevatore e una serie di strumenti di protezione di cui era stato correttamente dotato Il lavoratore, «forse per fare più in fretta, o comunque incautamente», decideva di salire sul tetto per meglio posizionare dei fili: nel percorrere il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, però, precipitava rovinosamente per cedimento delle stesse, riportando diverse lesioni. Nel corso del dibattimento veniva peraltro accertato che, secondo quanto ricostruito da un teste esperto, il lavoratore avrebbe potuto svolgere l’incarico in piena sicurezza esclusivamente dall’elevatore, senza spostarsi da esso.

 

Dopo aver richiamato il consolidato orientamento secondo cui il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, quando tale comportamento sia riconducibile all’insufficienza di cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio derivante dal comportamento imprudente, i giudici di legittimità osservano come la vicenda in esame fosse proprio un caso «in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte». Quest’ultime, inoltre, risultavano idonee ad evitare eventi di infortunio prevedibili e, in adesione a quanto puntualizzato nella sentenza Thyssenkrupp, correttamente assestate su un grado di “categorialità” accettabile. Ai fini del giudizio di prevedibilità, infatti, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante (da parte del soggetto agente) dell’evento dannoso, quale si è verificato in tutta la sua gravità ed estensione: occorre, dunque, far riferimento alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo, giacché un fatto descritto in tutti i suoi accidentali ragguagli diviene sempre, inevitabilmente, unico ed in quanto tale irripetibile ed imprevedibile.

 

Il comportamento della persona offesa, al contrario, non viene ritenuto in alcun modo prevedibile. Peculiare il passaggio in cui la Corte di cassazione, ricordando la pronuncia n. 41486 del 5 maggio 2015, sottolinea come il modello della normativa antinfortunistica abbia subito lente trasformazioni: questo, infatti, ha rinunciato alla propria natura “iperprotettiva”, incentrata sulla figura del datore di lavoro investito, in quanto garante, di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, per assurgere a modello c.d. “collaborativo”, dove gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori. Ciò, tuttavia, non ha escluso la rilevanza della responsabilità del datore di lavoro, posto che in giurisprudenza si è passati dal principio della «ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore» al concetto di «area di rischio», che il datore di lavoro è chiamato a valutare preventivamente: a tal proposito, oltre alla circostanza secondo cui l’imprenditore è tenuto a dichiarare nel documento di valutazione del rischio (DVR) l’area di rischio, sono stati individuati i criteri in base ai quali è possibile stabilire se la condotta del lavoratore rientri o meno nel processo produttivo o nelle mansioni di sua competenza.

 

Conseguentemente, la Suprema Corte ha sancito la nozione di comportamento “esorbitante”, differenziandola dal già delineato concetto di comportamento “abnorme”: «il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo; il secondo, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta».

 

Prendendo le mosse dalla normativa e dalla giurisprudenza citata, la Cassazione ha ritenuto che, nel particolare caso in esame, se il dipendente avesse agito con diligenza e prudenza senza avventurarsi in una situazione pericolosa probabilmente non sarebbe accaduto nulla; quanto riportato, dunque, deve intendersi quale sorta di revisione a 360 gradi della responsabilità del datore, volta a dare maggior consistenza alla responsabilità dei lavoratori (precisamente, al “principio di autoresponsabilità del lavoratore”). Detto altrimenti, si abbandona il criterio esterno delle mansioni per vagliare il parametro della prevedibilità intesa come “dominabilità umana del fattore causale”.

 

Concludendo, il datore di lavoro non ha più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta forniti tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed adempiute tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta “imprevedibilmente colposa” del lavoratore.

 

 

 

Amedeo Aramino

Dottore in giurisprudenza

 

@ameara91

 

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