Infortunio mortale sul luogo di lavoro: non è responsabile la società qualora il giudice di merito ometta di valutare il modello di organizzazione, gestione e controllo

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Bollettino ADAPT 17 febbraio 2020, n. 7

 

Con la sentenza del 24 settembre 2019 n. 43656, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alle responsabilità degli enti collettivi, derivante da omicidio colposo, commesso in violazione della normativa antinfortunistica. Gli Ermellini colgono l’occasione per esprimere un principio cardine nella responsabilità “da reato” delle imprese: l’inesistenza di una equipollenza tra la responsabilità penale personale e la corrispettiva responsabilità della persona giuridica.

 

Nel caso di specie, il giudizio ha ad oggetto il decesso di un operaio dovuto al cedimento strutturale del suolo. Il crollo della pavimentazione è stato cagionato dal passaggio di un mezzo pesante, per il quale non sono state predisposte misure idonee ad impedire eventi come quello verificatosi. Accertata in tutti i gradi di giudizio la responsabilità penale del soggetto preposto ai sensi del Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro (art. 19 d. lgs. n. 81/2008), la Suprema Corte si concentra sulla disamina del d. lgs. 231/2001.

È bene puntualizzare che la responsabilità del datore di lavoro, quale principale debitore di sicurezza nonché soggetto posto all’apice dell’organizzazione, è stata preliminarmente accertata e non costituisce oggetto della sentenza in commento.

 

In linea con la giurisprudenza prevalente, nonché con la dottrina maggioritaria, i giudici di legittimità rammentano il contenuto dei requisiti oggettivi di ascrizione della responsabilità in capo ad un ente collettivo. In particolare, precisano che interesse e vantaggio devono essere considerati concetti distinti, idonei – singolarmente – a fondare la responsabilità ex delicto delle persone giuridiche. Trattandosi, inoltre, di un reato colposo d’evento, siffatti criteri debbono essere riferiti alla condotta, e non all’evento. In altri termini, secondo l’interpretazione unanime, l’interesse o il vantaggio della società debbono essere ricercati nella condotta posta in essere dai soggetti agenti, piuttosto che nell’evento lesivo della vita o dell’integrità fisica di un lavoratore.

 

L’interesse della società, nei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime, è ravvisabile nel risparmio di spesa derivante dall’omessa predisposizione dei presidi precauzionali. Per converso, si manifesta il requisito del vantaggio allorquando si verifichi un aumento della produttività grazie all’inosservanza delle cautele antinfortunistiche.

È, infatti, difficile ipotizzare che una società possa ottenere benefici dalla morte o dalla lesione di un lavoratore. Ciò costituirebbe sia un grave danno d’immagine sia un ingente esborso in termini economici. Viene, così, escluso il secondo motivo di impugnazione della società, essendo oramai superata la tesi secondo cui interesse e vantaggio costituiscano un’endiadi: appare pacifico affermare che non sussista incompatibilità logica tra i reati colposi d’evento ed i criteri oggettivi di ascrizione della responsabilità degli enti.

 

Per converso, il fulcro del principio di diritto sancito dalla Suprema Corte si rinviene nella mancata valutazione, ad opera di ambedue i giudici di merito, del modello di organizzazione, gestione e controllo. I modelli organizzativi hanno rappresentato, sin dalla loro entrata in vigore, una “rivoluzione copernicana” nell’ordinamento giuridico italiano, poiché sanciscono, per la prima volta, un dovere di “auto-organizzazione” in capo alle società. In particolare, la disciplina della sicurezza del lavoro costituisce un terreno fertile per le interazioni sistematiche tra la responsabilità degli enti collettivi e le posizioni giuridiche personali.

 

La motivazione della sentenza commentata incarna proprio uno dei timori da sempre espresso in dottrina. Infatti, l’assenza di una legislazione puntuale conferisce ai giudici una pressoché totale discrezionalità nella valutazione del modello organizzativo, sfociando – a volte – nell’assenza di una valutazione concreta in ordine all’adozione ed all’efficace attuazione dello stesso. La mancanza di una simile analisi determina la sussistenza di una colpa in organizzazione, uno degli elementi fondanti la responsabilità ai sensi dell’art. 6 d. lgs. n. 231/2001.

 

Eludere il vaglio del modello di organizzazione, gestione e controllo, quando investito da specifica deduzione, significa condannare la società senza aver esaminato tutti gli elementi costitutivi della fattispecie.

 

Pertanto, la Corte di legittimità stabilisce che in materia di sicurezza del lavoro il giudice di merito, nel valutare la sussistenza di una responsabilità della societas, ha l’obbligo di accertare, in via preliminare, l’esistenza di un modello di organizzazione, gestione e controllo; la conformità dello stesso con i precetti legislativi e, infine, la sua efficace attuazione ante delictum.

 

Concludendo, la giurisprudenza di legittimità conferma il ruolo chiave dei modelli di organizzazione, gestione e controllo nella valutazione della responsabilità degli enti collettivi per la commissione di illeciti colposi in violazione delle norme antinfortunistiche. Si auspica, dunque, che non si incorra più in una equivalenza tra la colpevolezza dell’autore materiale del reato e quella dell’ente collettivo, dovendosi garantire alla persona giuridica un giudizio concreto ed autonomo.

 

Sara Sansaro

ADAPT Junior Fellow

@sarasansaro

 

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