Industria 4.0, un anno dopo tra buoni risultati e cantieri fermi

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Per Industria 4.0 è tempo dei primi bilanci. La ratio del piano, voluto e rivendicato a più riprese dal Ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, era tanto chiara quanto semplice: costruire due pilastri, gli investimenti in tecnologia e le competenze per governarli. A dodici mesi dalla sua presentazione ufficiale, a Milano lo scorso 21 settembre 2016, possiamo dire con pochi dubbi che il primo pilastro ha funzionato, mentre rispetto al secondo poco o nulla si è mosso. A fronte di una ripresa degli investimenti in tecnologia dimostrata dalla crescita del 9% degli ordinativi e di un buon incremento degli investimenti in Ricerca e sviluppo, il capitolo sui Competence Center, come ha riconosciuto con coraggio lo stesso Ministro è al palo.

 

E non si tratta solo di un 50% realizzato e un 50% ancora da realizzare, la relazione tra i due pilastri è più profonda. Infatti senza competenze e senza nuove forme di organizzazione e regolazione del lavoro il rischio è quello di vanificare gli investimenti fatti, o di utilizzarli unicamente come un semplice rinnovamento del parco macchine. Al contrario la combinazione tra investimenti in tecnologia e competenze in grado di governarli può essere una grande occasione per invertire la rotta della produttività stagnante e per un nuovo rinascimento del lavoro e delle relazioni industriali. La letteratura ci suggerisce ormai da tempo che il capitale umano è il volano principale dell’innovazione e su questo l’Italia ha ancora molto da fare. Lo dimostrano i dati sulle competenze e sull’occupazione che confermano come siano soprattutto i lavoratori low-skilled ad aver alimentato la recente ripresa economica, composta in particolare da over 50 che non hanno conosciuto in prima persona la rivoluzione digitale.

 

Fin ad oggi il piano ha scontato una visione incentrata soprattutto sugli aspetti più tecnologici e tecnici legati al nuovo paradigma produttivo di Industry 4.0 e per questo molta attenzione è stata dedicata agli investimenti in nuovi macchinari innovativi e in software che ad essi si accompagnano, in una logica di manifattura che sembra propria di un modello del passato. Infatti, sia gli studi più recenti che l’osservazione dei fenomeni ci consegnano oggi un sistema industriale nel quale il confine tra manifattura e servizi è sempre più sottile, tanto che spesso è difficile identificare il settore specifico al quale una singola impresa afferisce. Industry 4.0 non farà che accelerare tale commistione, grazie soprattutto all’Internet of things che consente di creare prodotti smart ai quali si possono affiancare sempre più servizi personalizzati. Così facendo si potrà rivoluzionare tutta la supply chain, introducendo a pieno titolo il consumatore in essa, insieme a tutta la rete dei fornitori pienamente integrati mediante la rete. Tutto questo può essere gestito al meglio solo all’interno di imprese che innovino i loro modelli di business evolvendosi verso sistemi aperti ad integrazione orizzontale, botton up e non più top down, che dialoghino costantemente e in tempo reale con tutti gli attori in grado a concorrere alla creazione di valore. In questo senso si può cogliere che vi è una dimensione più ampia del problema, che va oltre i meri aspetti tecnologici che sono sì abilitanti, ma parziali.

 

Quello descritto è quindi un ambiente caratterizzato da notevole complessità unita a sistemi produttivi che, personalizzando sempre di più i prodotti e i servizi in virtù del ruolo centrale del consumatore, spesso presentano elementi di imprevedibilità e non linearità. Per questo motivo, e considerando l’altro livello delle tecnologie impiegate, è fondamentale rivolgere l’attenzione alle competenze e agli strumenti per costruirle.

 

Poche voci, si sono tuttavia sin qui soffermate, quantomeno a un livello adeguato di profondità di analisi, sulla valutazione dei fattori soft e cioè abilitanti i nuovi processi produttivi. Quando lo si è fatto questo è avvenuto, il più delle volte, in termini di messa a fuoco delle (nuove) competenze professionali e dei relativi percorsi formativi. Si tratta di un aspetto indubbiamente centrale nei ragionamenti su «Industria 4.0» e che tuttavia ancora trascura i fattori di contesto e anche di struttura di un paradigma produttivo che supera i confini della singola impresa, come possono essere, in particolare, i sistemi scolastici e universitari, i sistemi regolatori del lavoro, i sistemi di relazioni industriali di welfare, nonché le istituzioni (centri per l’impiego, agenzie per il lavoro, fondi interprofessionali per la formazione continua, ecc.) che presidiano l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro nel mercato del lavoro, la riqualificazione professionale, le politiche attive e di ricollocazione e le connesse transizioni occupazionali.

 

Acquista così particolare importanza il capitolo del piano Industria 4.0 dedicato ai competence center, esperienze già radicate e sviluppate in molti altri Paesi e che invece da noi richiede ancora, da parte del governo, una elaborazione progettuale ed una spiegazione dettagliata del funzionamento, che pare sarà rimandata alla fine dell’anno quando verrà pubblicato il relativo bando.

 

A riguardo abbiamo pubblicato insieme a FIM-CISL un Libro Verde (che trovate in appendice dell’ebook) nel quale questi sono intesi come dei veri e propri hub della conoscenza, costruiti non su base territoriale ma sulla base della specializzazione tematica e coinvolgendo tutti gli attori che possono aiutare, come università, centri di ricerca, istituzioni locali, agenzie per il lavoro, sindacati ecc. Si pensa infatti che oggi le competenze e il valore non si costruiscano soltanto in modo lineare e formale, ma grazie all’esperienza di lavoro stessa e grazie agli stimoli che essa genera. Per questo motivo non è possibile immaginare le università come centri autonomi nei quali i competence center si organizzano fornendo poi alle imprese servizi e persone, poiché mancherebbe l’incontro tra tutti gli attori, oggi più che mai necessario.

 

Industria 4.0 porterà anche grandi cambiamenti nella governance del mercato del lavoro, alimentando costanti transizioni occupazionali caratterizzate da percorsi di carriera frammentati nei quali le competenze e l’occupabilità diventano non solo una vera e propria tutela ma anche un fattore di produttività. Investire in competenze non significa quindi soltanto completare il piano Industria 4.0 ma rivoluzionare l’intero funzionamento del mercato del lavoro, introducendo, contrariamente da quanto fatto col Jobs Act, un modello di politiche attive di prossimità e non centralistiche. Un modello che rimetta al centro il raccordo scuola-università-lavoro e la modernizzazione-concentrazione dei fondi interprofessionali per la formazione continua, superando sia le logiche emergenziali mutuate da quelle proprie degli ammortizzatori sociali, ma anche l’antiquata rappresentazione del lavoro per settori verticali e autoreferneziali che è superata dalla nuova geografia del lavoro.

 

In questo volume abbiamo voluto raccogliere tutte le riflessioni e le ricerche prodotte da ADAPT negli ultimi anni su questi temi per offrire la nostra progettualità e i nostri primi risultati al dibattito in corso, augurandoci che, pur continuando la discussione, si possa brevemente evolvere verso una fase operativa che metta in pratica le numerose proposte concrete oggi già presenti.

 

Elena Prodi

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT – Università degli Studi di Bergamo

@Elena_Prodi

 

Francesco Seghezzi

Direttore Fondazione ADAPT

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

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