Imparare lavorando: l’Italia ha raggiunto la Maturità?

Nell’Esame di Stato del 2015 è stata proposta agli studenti dei Licei delle Scienze umane una traccia che interroga sulla valenza formativa del lavoro. Un po’ sorprende questa scelta, ma non del tutto. La traccia giunge infatti in un anno particolare per l’alternanza scuola-lavoro: inserita come uno dei cardini all’interno de “La Buona Scuola”, l’alternanza è uno dei pochissimi temi della riforma che ha trovato larghi consensi da tutte o quasi tutte le parti che la stanno discutendo. L’impressione è che, al di là delle soluzioni tecniche, l’Italia stia lentamente riconoscendo il valore educativo del lavoro e che si tratti di un tema su cui riflettere e ragionare: sembra un momento propizio per questo salto di qualità.
Per questo motivo abbiamo chiesto ad un dottorando del terzo anno di tornare alla “Notte prima degli esami” e cimentarsi nell’elaborazione della traccia proposta dal MIUR per capire quanto siano maturi i tempi per il definitivo riconoscimento culturale del valore educativo del lavoro.
 
Prima parte
 
Il candidato avvalendosi anche delle riflessioni scaturite dalla lettura e dall’analisi del documento sotto riportato, tratti la questione dell’importanza del lavoro nel processo educativo.
 “Chi non lavora non mangi”. È un anatema chiaro, piuttosto minaccioso, quello che lanciava circa 2mila anni fa Paolo di Tarso alle comunità che stava visitando. Al bando la pigrizia, per colui che diventerà di fatto il primo filosofo del cristianesimo, il lavoro era una necessità naturale, come dormire, come mangiare, come bere. Ma non solo: Paolo era allievo di Gamaliele, uno dei più importanti maestri dell’ebraismo, e non ha dimenticato la sua lezione: “Chi non lavora, prima o poi diventa un furfante”. Non per il solo pane dunque: il lavoro nella sua sfera etica, intesa come agire pratico dell’uomo, è il fondamento di una società sana, dove la coesione nasce dall’organizzazione delle persone, dalla produzione di nuove risorse e dalla loro (possibilmente equa) ridistribuzione. Quando si insegna il lavoro si insegna a vivere (Paolo). Quando si insegna il lavoro si insegna l’etica e la giustizia (Gamaliele).
 
Ma c’è di più: quando si insegna il lavoro si insegna a contemplare il trascendente. Più laicamente: si insegna a scoprire la vera natura della propria umanità. Perché il lavoro nasce con l’uomo. E chi vuole comprendere l’uomo, nonché la società in cui si muove, deve conoscere il lavoro. È questo il cuore del celebre “Ora et Labora” di Benedetto da Norcia: molti l’hanno dimenticato ma grazie ai monaci benedettini l’Europa ha conosciuto, dopo le buie epoche barbariche, un processo di formazione della sua identità. Identità che nasce grazie all’impegno e alla dedizione assoluta di migliaia di monaci per cui il lavoro è diventato qualcosa di “alto”, di pari alla preghiera, che ha contribuito allo sviluppo dell’economia e della società europea e ne ha forgiato l’anima.
 
Come si può pensare all’Europa senza gli amanuensi silenziosi, ingobbiti, dalla vista annebbiata, che ogni giorno alternavano preghiere ed estenuanti turni lavorativi (senza per questo chiedere il supporto di un sindacato) per tramandare le lettere classiche? Oppure ai benedettini che hanno ideato la rotazione triennale, piantato foreste e sviluppato medicinali? Grazie ai monaci il lavoro è diventato una sorta di liturgia: un rito con il suo metodo, la sua disciplina, l’approccio collaborativo e l’aiuto reciproco, la sua obbligata (e talvolta inattesa) flessibilità. L’Europa, e non solo l’Italia, è allora fondata su questa concezione del lavoro. Il lavoro come destino, come dovere, che anche altre religioni (si pensi al dharma nell’induismo), ritengono strumento di trasmissione di senso, di identità. Chi impara il lavoro capisce da dove viene. Ma soprattutto comprende dove può andare.
 
C’è però il rovescio della medaglia: il lavoro è faticoso, ricco di tensioni, pieno di sacrifici. Dall’antichità al Medioevo, dal latino alle lingue volgari, labor (dalla radice “Labh”: volontà, intento) diventa il “travajo” spagnolo, il “travail” francese, il “travaddjo” delle lingue italico-meridionali: un travaglio. Uno sforzo enorme, certo, ma generativo. Nel tempo le società si sono arrovellate nel tentativo di eliminare l’aspetto faticoso del lavoro e preservarne soltanto quello generativo. Molte tecnologie nascono grazie a questa spinta. Ma in quei settori o ambiti in cui questo tentativo non ha sortito i risultati sperati, il lavoro è stato condannato a qualcosa di rango più “basso”: nasce da qui la fuorviante differenza tra lavoro manuale (faticoso e monotono) e lavoro intellettuale (comodo ed entusiasmante). Se nel Medioevo il lavoro era contemplazione e prosecuzione dell’opera divina, per quanto faticosa, nell’età moderna diventa una sorta di maledizione: qualcosa da esorcizzare e, quando inevitabile, da incontrare il più tardi possibile. È ciò a cui si riferisce il Kerschensteiner: anche lui richiama l’inevitabilità del lavoro, ma ne sottolinea la sua valenza positiva, quindi educativa. Lavorare ed educare al lavoro significa formare all’umanità, alla democrazia, ad una corretta vita personale prima che professionale.
 
Quali sono gli aspetti che aiutano ad educare al lavoro accettandone i contenuti faticosi? Il gioco, la gioia, la relazione. Kerschensteiner fa l’esempio del bambino: “Osservate un bambino, al quale il babbo abbia chiesto aiuto per scaricare un carro di legna; egli lavorerà contento e felice. Osservatelo ora che va alla scuola tradizionale: nessuna gioia sul volto.”. Stessa fatica, approcci diversi: la relazione padre-figlio, una relazione naturale, genitoriale (e generativa), permette al giovane di riconoscersi come parte di un’identità più grande. E di dare un proprio contributo. A scuola, ma questo non succedeva solo nell’Ottocento, la fatica che viene richiesta nelle attività didattiche si priva spesso dei necessari contenuti di relazione e gioia. E se il lavoro è considerato solo fatica, forse più dello studio perché oltre alla mente contempla l’uso della manualità, al bando il lavoro dalla scuola. Meglio preservare il giovane il più a lungo possibile dall’incontro con questa sorta di mala bestia. E provare invece a studiare e basta, ad intellettualizzarsi al massimo, per evitare che ci si sporchi le mani e ci si condanni a una vita anonima, piatta, noiosa.
 
Eppure la storia insegna che mani e ingegno devono integrarsi per formare all’eccellenza: Leonardo era un grande inventore, ma anche un grande artigiano. Così come Michelangelo era un grande scultore, ma anche un grande poeta. Ma è probabile che in Italia Leonardo e Michelangelo siano più noti come due membri delle Tartarughe Ninja. Sarà per questo che i giovani italiani arrivano fino ai 25 anni senza aver mai svolto nella propria vita la più elementare esperienza lavorativa. Secondo il CSC Confindustria solo il 3,3% degli italiani tra i 15 e i 25 anni ha alternato allo studio un periodo di lavoro o di formazione sul lavoro. In Germania e Francia oltre il 20%.
I tedeschi hanno accolto la lezione che fu di Kierschensteiner, e i francesi quella di Rousseau: passaggi culturali che hanno permesso di mantenere basso il numero di giovani disoccupati, nonostante le crisi. Gli italiani sono invece rimasti al principio “Prima si studia, poi si lavora” che, come alcune ricerche confermano, è una delle principali cause della disoccupazione giovanile, della lenta transizione scuola-lavoro, dell’abnorme fenomeno dei Neet. E più aumenta la disoccupazione giovanile, più aumenta il tasso di criminalità minorile: il numero di reati commessi da minori è quasi raddoppiato dal 2007 ad oggi, la maggior parte dei quali reati contro il patrimonio. La crisi ha avuto il suo peso: ma nell’identikit del criminale minorenne pesa non poco una scolarità bassa o totalmente assente. E nel frattempo l’abbandono scolastico non accenna a diminuire (attualmente siamo al 17%, mentre l’Europa ci chiede il 10%). “Chi non lavora, prima o poi diventa un furfante”: la lezione di Gamaliele non è stata ancora accolta.
 
Cosa succederebbe invece se a scuola si potesse imparare lavorando? Un bambino delle elementari potrebbe giocare con la matematica come insegnava Hans Magnus Enzenseberger ne “Il mago dei numeri”. Un ragazzo delle scuole medie potrebbe costruire dei razzi e diventare astronauta, come fece a scuola Homer H. Hickam a cui è stato dedicato il film “October Sky. Studenti di scuola superiore potrebbero progettare e realizzare robot e droni elementari nei laboratori, giocare a fare gli imprenditori e vendere i propri prodotti al mercato rionale, coltivare un orticello in cortile, accompagnare turisti nei musei presentando la storia della loro terra. Sono tante le esperienze lavorative che si possono fare a scuola, intesa non come spazio fisico ma come istituzione educativa.
 
Fuori dall’aula, con la giusta metodologia, c’è molto da imparare: non farlo significa conquistare un titolo di studio ma mantenere lacune significative. Integrare studio e lavoro dà ai giovani la possibilità di acquisire competenze molto apprezzate nel mercato delle risorse umane: il rispetto degli orari, l’orientamento al risultato, la collaborazione con i colleghi, il metodo, la progettualità, la capacità di risolvere problemi contingenti e di prevedere problemi futuri.
Non si avrà mai la certezza matematica che chi ha fatto esperienze lavorative a scuola diventi un grande professionista, ma almeno, cercando di diventarlo, si sarà divertito. E pensandoci è paradossale che la pratica del lavoro, considerata fatica e travaglio, in qualche modo renda più leggera l’esperienza educativa, più divertente lo studio. Aiuti ad assumere il giusto distacco dal libro. Ad andare a scuola con maggiore convinzione. Ad avere contatto diretto con la realtà. E, in definitiva, a non averne paura.
 
Seconda parte
 
Il candidato risponda ai seguenti quesiti:
 

  1. In che senso il lavoro può diventare educativo?

 
Il lavoro può diventare educativo perché fornisce al giovane competenze utili ad affrontare la vita dopo lo studio: sia sul piano meramente professionale che sul piano personale. Sul piano professionale permette di acquisire, anche se in modo elementare, determinate soft skills che sono molto utili nel mercato del lavoro (problem solving, capacità di lavorare in team, rispetto degli orari e dell’organizzazione lavorativa).
Sul piano personale invece la valenza educativa del lavoro aiuta a rispondere alla domanda “Chi sono? Chi sarò?” e ad avere maggiore conoscenza di sé e dei propri mezzi/limiti: il lavoro è infatti disciplina, autovalutazione, confronto con gli altri. Incontrare il lavoro prima del diploma aiuta a comprendere meglio le future scelte formative/lavorative e ad acquisire maggiore consapevolezza della propria identità di persona, studente, cittadino, lavoratore.
In qualche modo è uno strumento di costruzione della personalità e nel frattempo fattore di coesione di una società più giusta: chi impara il lavoro inizia a conosce la realtà che gli sta attorno e a capire come incidere nel rispetto delle regole; chi impara il lavoro ai abitua a progettare e realizzare un’idea; chi impara il lavoro è costretto a relazionarsi con gli altri e convivere con le differenze; chi impara il lavoro inizia a comprendere che le proprie scelte personali vanno bilanciate con le scelte altrui. In altre parole chi impara il lavoro impara i fondamenti della democrazia: regole, progettualità, rispetto reciproco, bilanciamento degli interessi.
 

  1. Quali sono gli elementi in comune e quali sono le differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale?

 
Le differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale si esauriscono nelle parole stesse: il lavoro manuale è un’azione che contempla prevalentemente l’uso delle mani; il lavoro intellettuale contempla prevalentemente l’uso dell’ingegno. Sarebbe tuttavia errato creare una distinzione netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: non si può dire che un lavoratore manuale (si pensi ad un operaio in fabbrica) possa svolgere al meglio il suo lavoro senza usare l’intelletto: movimenti, rispetto dei tempi e delle procedure non possono essere efficaci e produttivi senza la giusta concentrazione mentale.
Non si può al contempo dire che un lavoratore intellettuale (si pensi ad un ingegnere) possa svolgere al meglio il suo lavoro senza saper disegnare (a mano o su PC) ciò che la sua mente sta producendo: qualora non fosse in grado di “tradurre” in concreto la sua idea progettuale, essa resterebbe incompiuta o comunque irrealizzabile. La componente manuale e intellettuale è presente in tutte le attività lavorative: un lavoratore esclusivamente manuale (che esegue senza pensare) è un robot, un lavoratore esclusivamente intellettuale (che crea col solo pensiero) è una sorta di divinità.
Il lavoro umano può essere più creativo o esecutivo, in solitaria o in squadra, più flessibile o più routinario, più relazionale o più tecnico, ma è comunque e sempre (anche se talvolta non è evidente) sia manuale che intellettuale.
 
 
 
Alfonso Balsamo
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@Alfonso_Balsamo
 
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Imparare lavorando: l’Italia ha raggiunto la Maturità?
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