Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato

L’arrivo del primo vaccino anti-Covid ha suscitato, com’era prevedibile, molti interrogativi anche in ordine al suo impatto nelle dinamiche del mondo lavorativo. Da alcune settimane l’evidenza di una diffusa “obiezione di coscienza” ha fatto emergere il dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti, e sulle conseguenze del rifiuto del lavoratore, almeno di quello dipendente, nelle relazioni col datore pubblico o privato. Le soluzioni ipotizzate sono disparate, suggerite spesso dalle visioni soggettive del quadro dei principi e delle regole fondamentali dell’ordinamento, ma imposte d’altronde dall’assenza di una norma positiva.

 

La realtà è che, in una materia tanto delicata e complessa, che involge tematiche multidisciplinari e non tutte squisitamente giuridiche, sembra difficile per una volta identificare due schieramenti nettamente contrapposti (pro o contro la licenziabilità del lavoratore renitente). Per lo più le divergenze tra i commentatori appaiono più sfumate.

 

Giustizia Insieme ha coinvolto nel dibattito quattro illustri studiosi e operatori del diritto del lavoro, di estrazione e attività diverse, secondo la propria radicata vocazione pluralista e in un’ottica di allargamento massimo dello scenario giuridico-sociale.

 

Qual è la sua opinione sulla possibilità per il datore di lavoro d’imporre al proprio dipendente, soprattutto se addetto a taluni servizi, di sottoporsi al vaccino anti-Covid?

 

Arturo Maresca: «Si deve muovere dalla considerazione che il legislatore (art. 1, co. 457 ss., l. 178/2020) ha varato “il piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2” escludendone consapevolmente l’obbligatorietà sia per la generalità dei cittadini sia per specifiche categorie di lavoratori…

 

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