Il segreto della Germania sta nelle riforme approvate dieci anni fa

Per efficienza del mercato del lavoro, l’Italia si colloca al 137 posto (su 148 Paesi), la Germania al 41° (dati Word Economie Forum). Anche questo indice complesso e non solo l’andamento del tasso di disoccupazione (nel 2013 rispettivamente del 12,2% e del 5,3%) ci segnalano la notevole differenza tra i mercati del lavoro dei due Paesi.
 
Le riforme del lavoro realizzate tra il 2003 e il 2005 in Germania (note come riforma Hartz) hanno contribuito a ridurre l’allora elevato tasso di disoccupazione, soprattutto di lungo periodo. La riorganizzazione dei servizi pubblici per l’impiego, le misure volte a incentivare la ricerca attiva di un lavoro dei disoccupati e favorirne il reinserimento, la maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro, in particolare il tempo determinato, la promozione dell’auto-impiego e delle micro -imprese, i mini-job, sono gli interventi che insieme alla riforma degli ammortizzatori sociali hanno costituito la riforma organica e strutturale che ha consentito alla Germania di migliorare notevolmente le performance del mercato del lavoro e reggere bene l’impatto della crisi, senza gli interventi emergenziali che hanno caratterizzato l’Italia e molti Paesi europei.
 
Il cosiddetto “miracolo tedesco” è merito anche delle parti sociali e delle avanzate relazioni industriali, caratterizzate dalla partecipazione dei lavoratori e dalla responsabilità del sindacato nel fronteggiare le situazioni di crisi. Ne sono un esempio i rinnovi contrattuali precedenti alla crisi che, considerando gli elevati livelli retributivi tedeschi, avevano previsto il congelamento dei salari o l’aumento dell’orario di lavoro a retribuzioni invariate, in cambio dell’impegno delle imprese a non delocalizzare o a non licenziare. Ciò ha determinato una riduzione del costo del lavoro, accompagnata da un aumento di produttività e competitività.
 
Unitamente a tali elementi, non va trascurata un’altra particolarità del modello tedesco: il sistema duale della formazione, che ha determinato, tramite l’apprendistato scolastico, livelli di disoccupazione giovanile in linea con il tasso di disoccupazione totale (nel 2003 Germania 7,9%, Italia 40%). La forza della formazione duale sta nell’alternanza formativa per incoraggiare quel rapporto tra scuola e lavoro che tanto servirebbe anche in Italia.
 
La comparazione tra modelli nazionali (e non necessariamente l’esatta e completa trasposizione) serve per comprendere le possibili soluzioni a un determinato problema e la loro efficacia. Non tutte le soluzioni sono però adeguate e nessuna è perfetta. In particolare non converrebbe all’Italia imitare la novità tedesca del salario minimo legale che rischia di essere per la Germania un boomerang. Autorevoli economisti hanno messo più volte in guardia sulle possibili conseguenze negative sull’occupazione dell’introduzione del salario minimo. Secondo alcuni potrebbe costare un incremento di 1,38 punti percentuali nel tasso di disoccupazione, per altri la perdita di 50.000 posti di lavoro all’anno. Senza contare la possibilità che si diffondano pratiche volte ad aggirare la soglia. Inoltre, questo strumento rischia di spiazzare l’azione e il ruolo delle parti sociali.
 
Nel sistema italiano, come in quello tedesco (fino all’introduzione del salario minimo dal 1° gennaio 2015), sono i contratti collettivi di lavoro a garantire livelli minimi di retribuzione. Se l’obiettivo è renderli pienamente effettivi, un buon esempio è la procedura amministrativa che, in Germania, estende su richieste delle parti sociali l’efficacia di un determinato contratto collettivo a tutte le imprese e i lavoratori del settore. Altro esempio di Germania da imitare, nonostante i ripensamenti del Parlamento tedesco.
 
Silvia Spattini
Direttore e Senior Research Fellow di ADAPT
@SilviaSpattini
  
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* Pubblicato anche in Libero Quotidiano, 12 settembre 2014

Il segreto della Germania sta nelle riforme approvate dieci anni fa
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