Il ruolo del “repechage” alla luce del d.lgs. n. 23/2015

Il decreto legislativo n. 23/2015 ha apportato sostanziali novità in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori (operai, impiegati e quadri) assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, eliminando, da un lato, la procedura preventiva presso la DTL e, dall’altro, la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo.
 
L’articolo 3, comma 1, del decreto in esame stabilisce, infatti, che, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento» e condanna il datore di lavoro al mero pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di anzianità aziendale, con un limite minimo di 4 mensilità e un massimo di 24 mensilità.
 
La disciplina riguarda solamente le conseguenze del recesso illegittimo.
Il d.lgs. in parola non ha, infatti, modificato in alcun modo i motivi legittimanti il recesso e, in particolare, la nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 3, seconda parte, della legge n. 604/66 che, pertanto, continuerà ad essere quello determinato da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Sul punto, la giurisprudenza consolidatasi nel tempo ritiene che il giudice su questo specifico tipo di recesso debba effettuare necessariamente una duplice verifica: la prima sull’assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere di provare l’effettività delle ragioni di carattere produttivo-organizzativo addotte a fondamento del licenziamento e, poi l’incidenza causale di dette ragioni sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore licenziato. E fin qui nulla da rilevare.
 
La giurisprudenza di cui sopra ha elaborato altresì il cosiddetto obbligo di “repêchage”, consistente in un ulteriore obbligo per il datore di lavoro di verificare (e provare in giudizio) l’impossibilità di adibire i dipendenti che sono stati licenziati per soppressione del posto di lavoro, in altre e ulteriore mansioni all’interno della struttura organizzativa dell’impresa.
In considerazione di quanto previsto dal d.lgs. n 23/2015 è necessario chiedersi se tale obbligo, di matrice espressamente giurisprudenziale, possa ancora ritenersi sussistente nel caso di licenziamenti del personale assunto con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti a partire dal 7 marzo 2015.
 
La teoria dell’obbligo di “repêchage” poggia sul principio elaborato da dottrina e giurisprudenza, a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, secondo il quale il licenziamento deve rappresentare l’extrema ratio in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infatti, la norma statutaria considerava la stabilità del posto di lavoro un diritto assolutamente preminente da tutelare rispetto al valore dell’iniziativa economica garantito a livello costituzionale (articolo 41 della Costituzione), stabilendo che in tutti i casi di «licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo» il lavoratore avesse diritto ad ottenere una tutela in forma specifica attraverso il ripristino della posizione lavorativa quo ante, ossia la reintegrazione nel proprio posto di lavoro.
 
Tale tutela è stata mantenuta, seppur in forma limitata, anche con le modifiche apportate all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori dalla Riforma Fornero che aveva stabilito il diritto del lavoratore ad essere reintegrato solo in caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo», prevedendo «nelle altre ipotesi» di licenziamento illegittimo esclusivamente una tutela indennitaria (da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto).
 
Se, dunque, l’obbligo di “repêchage” appariva coerente con l’impianto normativo adottato dal legislatore nel 1970 e, poi, con l’impianto della Riforma Fornero, così non sembra potersi dire, nell’ambito della struttura della nuova disciplina per il licenziamento illegittimo prevista oggi dall’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/15.
 
Tale norma, infatti, attraverso l’eliminazione dell’obbligo di reintegrare il lavoratore in caso di recesso illegittimo per giustificato motivo oggettivo, sembra aver capovolto la precedente prospettiva, assegnando un valore preminente alle esigenze del datore di lavoro di stabilità economica con la previsione della rigida predeterminazione dell’indennità risarcitoria da corrispondere al lavoratore in caso di illegittimità del licenziamento.
 
La nuova disciplina, dunque, sembrerebbe condurre all’abbandono del consolidato principio dell’obbligo di “repêchage” per i licenziamenti dei neoassunti, comportando un alleggerimento degli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro che, ai fini della legittimità del recesso, dovrebbe essere chiamato a provare solo la sussistenza in concreto delle ragioni giustificanti il licenziamento, nonché il nesso causale tra tali ragioni e l’atto posto in essere dal datore di lavoro.
È probabile che sul breve periodo la giurisprudenza, soprattutto di merito, farà fatica a recepire questa novità sistematica.
 
 
Cristina Guelfi
Dottoressa in Giurisprudenza
@Cristin50039334
 
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