Il nuovo dottorato di ricerca: dall’accademia alla realtà

“Bisogna collegare il mondo dell’Università e della Ricerca al lavoro, al sistema produttivo del Paese”. Parola di Davide Faraone, sottosegretario al MIUR, che in un’intervista su La Stampa presenta la novità, di non poco conto, che riguarda il dottorato di ricerca.
Infatti, con un emendamento al disegno di legge Madia presentato dal parlamentare del partito democratico Marco Meloni e approvato in Commissione affari costituzionali, si prevede la «valorizzazione del titolo di dottore di ricerca».
 
Chi segue l’universo di ADAPT, sa che da sempre collegare l’università e la ricerca al mondo delle imprese ed a quello delle amministrazioni pubbliche è uno dei cavalli di battaglia dell’associazione fondata da Marco Biagi ormai tre lustri addietro. In effetti, il dottorato promosso da ADAPT rappresenta ancora oggi, a distanza di tanti anni dagli inizi, praticamente un unicum sul panorama nazionale: costruire dottorati “industriali” mirati a rimuovere le rigidità e le lacune esistenti nel mercato del lavoro, in settori diversi dal reclutamento accademico, costituisce uno degli assi portanti dell’associazione modenese.
 
D’alta parte, è noto che in Italia fino ad ora il dottorato di ricerca è stato “visto prevalentemente come il primo passaggio della carriera accademica” e, dal punto di vista del percorso formativo, “si risolve nella maggior parte dei casi in una mera relazione personale tra professore e dottorando, slegata da interazioni con il tessuto imprenditoriale del Paese, a scapito del trasferimento di conoscenze al mondo dell’impresa e anche delle future prospettive occupazionali e di inserimento dei giovani” (si veda M.T. Cortese, Apprendistato e dottorati di ricerca, in  Il Testo unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini a cura di M. Tiraboschi, Giuffrè, 2011). Purtroppo non si può non fare i conti con l’amara realtà che vede il dottorando prima, ed il dottore di ricerca italiano poi, assumere spesso e volentieri la funzione di portaborse (a basso costo) del docente di riferimento nell’attesa di una cattedra universitaria che nel 99% dei casi non arriverà mai.
 
Inoltre, sempre dal punto di vista applicativo, il titolo di dottore di ricerca ha avuto scarso rilievo anche all’interno della pubblica amministrazione in generale. Senza voler ripercorrere la storia e l’evoluzione del dottorato nella PA (per le quali si rinvia ad un proprio scritto), basti qui ricordare che per progredire in carriera, ancora oggi nell’amministrazione pubblica il criterio maggiormente utilizzato resta l’anzianità di servizio. Ad onor del vero, un piccolo passo avanti in questo senso, è stato fatto con la riforma “Brunetta” che, in tema di accesso alla dirigenza, ha previsto, tra gli altri, il dottorato di ricerca quale titolo che riduce da cinque a tre anni il periodo di servizio dei dipendenti di ruolo «svolti in posizioni funzionali per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del dottorato di ricerca o del diploma di laurea» per poter partecipare al concorso.
 
Proprio per tutto questo, non si può non sottolineare con favore il cambio di impostazione culturale ed ideologico salutato con l’introduzione dell’emendamento Meloni. La portata innovativa della novella legislativa viene spiegata chiaramente e senza giri di parole dal Governo stesso il quale, per bocca del suo Sottosegretario all’università, si esprime in termini molto netti sulla questione : «il titolo di dottore di ricerca favorisca l’accesso agli alti ranghi dell’amministrazione […] è un bene che nella riforma della P.A. si preveda un riconoscimento specifico di tale titolo come canale preferenziale per accedere a cariche dirigenziali e nei concorsi della pubblica amministrazione…» (intervista su La Stampa del 13 luglio).
 
Va detto però che, trattandosi di una legge delega, è vero che da un lato darebbe al Governo il mandato di escogitare delle formule che rendano il conseguimento del dottorato titolo preferenziale per le PA, ma dall’altro, senza una vigilanza sulla decretazione delegata, si rischia di rimanere ancora una volta alle buoni intenzioni di cui, com’è noto, è lastricata la strada per l’inferno.
 
In conclusione, il nostro augurio non può che restare lo stesso di anni fa, quando, praticamente in splendida solitudine, sostenevamo che «per valorizzare al meglio un percorso così importante e prestigioso che permette di raggiungere il più alto grado di istruzione universitaria, sarebbe auspicabile prevedere delle quote di riserva nei concorsi per le categorie apicali. Potrebbe essere un modo per dare un’ulteriore spinta modernizzatrice, in un solo colpo, sia all’Accademia che alle amministrazioni pubbliche in generale, consentendo un collegamento vero tra due pianeti che oggi invece sembrano distanti anni luce, pur appartenendo allo stesso macrocosmo».
 
Che sia davvero “la volta buona”?
 
Giancarlo Neri
Funzionario doganale
Dottore di ricerca in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-Università degli Studi di Bergamo
 
* Si segnala che le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.
 
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