Il mio canto libero – Infortuni in ambienti confinati: norme rigorose ma talora ineffettive

Bollettino ADAPT 16 settembre 2019, n. 32

 

Nei giorni scorsi l’ennesimo infortunio mortale plurimo in un ambiente confinato (silos, cisterne, pozzi e simili) ha giustamente suscitato compassione e indignazione. Due lavoratori sono deceduti con i loro due datori di lavoro. Tutti immigrati. Come al solito, l’informazione prevalente non è stata densa di notizie oltre i fatti nudi e crudi. Sarebbe stato utile ricordare che nell’agosto 2011, su proposta del Ministro del Lavoro e a seguito di molte vere e proprie stragi (tra le quali quelle di Ravenna, Mineo, Molfetta, Sarroch, Capua, Emo di Adria, Messina), fu prodotto il Decreto del Presidente della Repubblica (DpR n. 177/11) che ha introdotto misure di maggior tutela della salute e sicurezza dei lavoratori operanti in luoghi di lavoro nei quali vi siano rischi di sviluppo di sostanze altamente nocive o di gas.

 

Il provvedimento dispone che in tali contesti possano operare unicamente imprese e lavoratori in possesso di competenze professionali e addestramento adeguati al rischio delle attività da realizzare, oltre che a conoscenza delle procedure di sicurezza da applicare. In particolare, le norme prevedono (anche per il datore di lavoro), in aggiunta agli obblighi generali di formazione, specifico addestramento periodicamente aggiornato, l’obbligo di dotazione di dispositivi di protezione individuale (es.: maschere protettive, imbracature di sicurezza, etc.) e di strumentazioni-attrezzature di lavoro (es.: rilevatori di gas, respiratori, etc.) idonee a prevenire i rischi. È necessaria la presenza di personale esperto, in percentuale non inferiore al 30% della forza lavoro, con esperienza almeno triennale in “ambienti confinati”.

 

Il preposto, che sovrintende al gruppo di lavoro, deve avere in ogni caso tale esperienza in modo che alla formazione e all’addestramento il “capo-gruppo” affianchi l’esperienza maturata in concreto. Obbligatori infine il rispetto del DURC e l’applicazione delle regole della qualificazione nei confronti di qualunque soggetto della “filiera”, incluse le eventuali imprese subappaltatici. In caso di appalto, si deve garantire che, prima dell’accesso, tutti i lavoratori e il datore di lavoro siano puntualmente e dettagliatamente informati dal committente di tutti i rischi che possono essere presenti nell’area di lavoro (compresi quelli legati ai precedenti utilizzi). È previsto che tale attività debba essere svolta per un periodo sufficiente e adeguato allo scopo e, comunque, non inferiore ad un giorno. Il committente deve individuare un proprio rappresentante, adeguatamente addestrato ed edotto di tutti i rischi dell’ambiente in cui debba svolgersi l’attività dell’impresa appaltatrice e vigilare conseguentemente. Durante tutte le fasi delle lavorazioni in ambienti sospetti di inquinamento o “confinati” deve essere adottata una procedura di lavoro specificamente diretta a eliminare o ridurre al minimo i rischi.

 

Come si è visto le norme sono puntigliose ma evidentemente inapplicate o solo formalisticamente applicate. Il Direttore dell’Inail ha in questi giorni ipotizzato che talora si faccia una formazione inutile i cui esiti concreti dovrebbero invece essere verificati con un metodo sostanziale. E l’attenzione dovrebbe essere ancor maggiore per i lavoratori immigrati che spesso non hanno adeguato background. Essi ci ricordano il repentino passaggio negli anni ‘60 di molti connazionali dalla terra alla fabbrica senza preparazione adeguata per cui registrammo il terribile picco degli infortuni mortali. In effetti l’empowerment delle persone al lavoro, imprenditori e lavoratori, risulta sempre più necessario. Si pensi ancor più al lavoro agile o ai lavori organizzati da piattaforme digitali. Ha senso chiedere un impossibile obbligo di vigilanza del datore di lavoro/committente su ambienti non prevedibili o non è meglio operare per soluzioni effettivamente prevenzionistiche come l’addestramento in situazione di compito (non formazione d’aula) e una vera sorveglianza sanitaria che spazi dall’educazione agli stili di vita fino agli screening periodici? Ciò non significa deresponsabilizzare l’impresa ma, al contrario, sollecitarla a organizzare vera sicurezza a partire dall’investimento formativo in modo che ciascuno sia più attrezzato a tutelarsi.

 

Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi

 

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