Il mio canto libero – Contratti rivoluzionari o conservativi?

Bollettino ADAPT 14 settembre 2020, n. 33

 

Già nel luglio 1993 la commissione ministeriale istituita dal ministro Gino Giugni sollecitò il superamento del modello centralizzato di contrattazione collettiva per privilegiare gli accordi aziendali e territoriali. Più recentemente il Presidente di Confindustria Bonomi ha parlato di “contratti rivoluzionari” per dire in fondo le stesse cose. Ma la resistenza delle burocrazie associative si ripropone ora come fu forte allora. Lo stesso incontro tra Confindustria e sindacati dei giorni scorsi non ha chiarito la funzione dei contratti collettivi nazionali che nessuno vuole cancellare ma più pragmaticamente cambiare. La stessa vicenda del contratto degli alimentaristi, sottoscritto dalle sole asssociazioni rappresentative delle imprese maggiori, ha evidenziato la difficoltà di omologare l’intero comparto rappresentato da Federalimentare nel momento in cui la crisi dovuta al contagio ha prodotto profonde differenze nella capacità di reazione del settore. Già qualcuno si interroga se sarà possibile evitare che l’accordo siglato diventi il necessario riferimento per tutte le aziende. Se, come ha invocato il vicepresidente di Confindustria Stirpe, fosse stata approvata una legge sulla rappresentanza, questa avrebbe irrigidito la contrattazione costringendo tutte le imprese all’unico perimetro di applicazione.

 

Al contrario, il bravo giuslavorista Pietro Ichino ha ricordato che la Costituzione, sottolineando la libertà contrattuale, ha riservato alle sole parti sociali e non alla legge la duttile definizione degli ambiti di riferimento degli accordi collettivi. Il mondo della produzione è sempre più diversificato e mal tollera scambi tra remunerazione e orario uguali per grandi platee. I temi della produttività e della professionalità, come rilevati dal presidente Bonomi, sollecitano intese di prossimità in modo che i salari riflettano i relativi incrementi nella dimensione aziendale o interaziendale. I sindacati oppongono a questa considerazione le molte aziende minori nelle quali non si sottoscrivono accordi virtuosi in questo senso. Diventa quindi necessaria la ricerca di soluzioni che i contratti nazionali potrebbero individuare attraverso clausole di salvaguardia per aumenti salariali destinati a scattare solo dopo che sia inutilmente decorso un certo tempo a disposizione delle imprese. Un differenziale fiscale tra erogazioni determinate da questi accordi e quelle prodotte nelle singole imprese, incentiverebbe la virtuosa contrattazione decentrata.

 

Nel primo caso tassazione piena, nel secondo aliquota “secca” al dieci per cento. In questo modo si genererebbe un incentivo agli accordi di prossimità. Bisognerebbe pertanto fermare l’ipotesi della detassazione degli aumenti definiti dai contratti nazionali perché utile solo ad incoraggiare la pigrizia contrattuale dei sindacati e delle singole imprese. Così come appare necessario evitare una legge sulla rappresentatività dei corpi sociali che si pone in contrasto con lo stesso Patto per la Fabbrica in quanto accordo interconfederale. Per l’ennesima volta e in un mondo profondamente cambiato rispetto a quel lontano 1993, le parti sociali hanno l’occasione di uscire dalla ripetizione conservativa di contratti nazionali burocratici per privilegiare la ricerca di soluzioni a misura delle singole imprese e dei singoli lavoratori.

 

Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi

 

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