Il lavoro dà i numeri? Alla ricerca di una visione che manca

Nei giorni scorsi sono stati diffusi diversi indicatori che possono contribuire a delucidare alcune caratteristiche del mercato del lavoro italiano. Esercizio importante ad oltre un semestre dall’entrata in vigore, grazie alla legge di stabilità, della decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato e da quattro mesi dalla riforma dell’istituto ad opera del d.lgs. n. 23/2015.
Tali dati non riguardano solo il mercato del lavoro in senso stretto ma, riferendosi al più ampio scenario economico aiutano ad inquadrare meglio i dettagli all’interno di un panorama complesso e spesso analizzato in modo frammentario.
 
Dati e statistiche: un panorama contraddittorio
 
A questo riguardo è utile partire dalle statistiche diffuse dall’Istat sulla produzione industriale. Numeri che appaiono immediatamente positivi, con un aumento dello 0,9% rispetto al mese precedente e del 3% su base annua. Risultati che confermano una inversione dei trend negativi degli ultimi anni e fanno presagire un nuovo scenario di crescita, se è vero che la spinta è data soprattutto dal +8,5% dei beni strumentali.
 
In questo panorama ottimistico si affacciano, in una dinamica di alti e bassi che ci accompagna ormai da mesi, però due dati negativi: le comunicazioni obbligatorie dei rapporti di lavoro attivati o cessati diffuse dal Ministero del lavoro e i dati Istat sul numero degli occupati e disoccupati.
 
I primi, relativi al mese di maggio 2015, certificano una situazione di sostanziale continuità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sia quantitativamente che qualitativamente. Infatti i nuovi contratti attivati, al netto delle cessazioni, sono solamente 3544 (che diventano circa 12mila se si tiene conto delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato) in più rispetto al maggio scorso. Allo stesso modo le attivazioni a tempo indeterminato ammontano a 271 unità in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
 
Crescono invece di 184.812 unità i contratti a tempo determinato e corrispondono alla quasi totalità del netto tra attivazioni e cessazioni per maggio 2015.
L’ultimo dato nazionale da prendere in considerazione prima di avanzare una interpretazione dello scenario è il calo di 63mila occupati verificatosi sempre a marzo 2015 e certificato dall’Istat. Gli stessi dati mostrano un lieve calo della disoccupazione giovanile compensato però negativamente dall’aumento dell’inattività nella fascia d’età 15-24.
 
Una prima analisi tra subordinazione e lavori che non tornano
 
Come possono essere letti questi numeri? E soprattutto, cosa ci dicono dell’efficacia o meno del Jobs Act? Per rispondere a queste domande in modo limpido è opportuno ricordare che l’obiettivo della recente riforma, in particolare dei decreti n. 23 e n. 81, non è tanto quello di rilanciare l’occupazione nel nostro Paese, quanto diffondere forme di lavoro stabili, identificando esse con il contratto a tempo indeterminato, contratto che deve essere privilegiato tra tutti e diventare la normalità per le nuove assunzioni, come dichiara l’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015.
 
Ciò detto, possiamo notare come nei primi mesi del 2015 vi sia stato un netto aumento della percentuale di contratti a tempo indeterminato sul totale delle nuove attivazioni, ma che questo si sia interrotto nell’ultimo periodo. Il trend è iniziato da gennaio, quindi è stato riscontrato anche prima dell’introduzione a marzo del nuovo contratto a tutele crescenti e ciò permette al momento di concludere (salvo essere smentiti dai dati dei prossimi mesi) che esso sia stato determinato non dalla maggior flessibilità in uscita dell’istituto riformato, ma dallo sgravio contributivo che sembra aver già terminato, o comunque molto placato, il suo effetto. Analizzeremo in seguito, e invero lo abbiamo già fatto in altri luoghi, come questa sia la conseguenza dell’aver forzatamente spinto il mercato verso l’utilizzo di uno strumento che non corrisponde alle sue esigenze sostanziali ma solo a quelle di contingenti di cassa e quindi di breve periodo.
 
Resta aperta in secondo luogo una grande domanda, che va oltre l’analisi specifica degli effetti del Jobs Act e che riguarda direttamente la grande trasformazione del lavoro in atto: come è possibile che cresca la produzione industriale e che l’occupazione sia stagnante? A questa domanda non possiamo che offrire una risposta parziale che potrà essere verificata o meno nel futuro, a partire dai prossimi dati su un possibile aumento della produttività, che secondo le leggi economiche dovrebbe spiegare questo scenario.
 
Nel frattempo, per provare a rispondere, ci viene in aiuto il nuovo Employment Outlook 2015 pubblicato il 9 luglio dall’OCSE. In questo studio si evidenzia come molti dei lavori del settore manifatturiero andati persi durante la crisi economica non stanno ritornando in questa fase di ripresa. Essendo il fulcro della produzione industriale italiana legato alla manifattura, questo dato acquista uno ruolo importante tra gli elementi che possono spiegare lo scenario di oggi. L’allarme di una jobless recovery risuona oggi più forte e la grande componente di beni strumentali all’interno dell’aumento della produzione industriale può far immaginare la sostituzione di molti lavori svolti da uomini nel periodo pre-crisi con macchine.
 
Questo possibile panorama, sicuramente valido dal punto di vista quantitativo, apre numerose questioni sul futuro del lavoro nel nostro Paese.
 
Rivoluzioniamo il lavoro, a partire da quanto c’è già
 
Dopo l’illustrazione dei dati e il tentativo di avanzare una prima analisi, possiamo giungere a qualche conclusione relativa alla visione del lavoro contemporaneo, che necessita di un cambio di paradigma.
 
In primo luogo si può affermare che individuare il contratto a tempo indeterminato come istituto principale del mercato del lavoro italiano abbia trovato davanti a diversi ostacoli che, al momento, ne impediscono l’affermazione. Quello che, a nostro parere, risulta un’aggravante è che non si tratta di ostacoli contingenti e quindi rimuovibili, ma che il mancato decollo dipende proprio dalla non comprensione della struttura del mercato del lavoro odierno. Questo va oltre la categoria della subordinazione e perciò una vera flessibilità, per essere efficacie, deve superarne i limiti.
 
Se fino a pochi mesi fa queste affermazioni potevano risultare come una delle posizioni all’interno di un dibattito dottrinale, appaiono oggi come un forte segnale lanciatoci dal mercato del lavoro stesso che rischiano di contribuire all’invecchiamento precoce del già citato art. 1 del d.lgs. n. 81/2015.
 
La seconda conclusione è più complessa e può essere considerato uno spunto per i prossimi mesi, sia per il mondo della ricerca che per quello della politica.
Se i settori produttivi che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale italiano sono oggi quelli che più rischiano di produrre disoccupazione tecnologica di keynesiana memoria, è urgente rivedere la nostra politica industriale e tentare di individuare strade che possano condurre a una soluzione win-win per capitale e lavoro. A questo riguardo possiamo iniziare a prendere sul serio l’esempio tedesco che, in uno scenario di cambiamento dei sistemi produttivi simile al nostro, sta concentrando i propri sforzi nello sviluppo di nuovi modelli di produzione industriale secondo le linee guida della cosiddetta Industry 4.0. Questo porterà, secondo alcuni studi, all’aumento del 6% dell’occupazione nel settore manifatturiero nei prossimi dieci anni.
 
Questa è una sfida dal cui punto di vista possono essere osservati tutti i nodi critici del nostro mercato del lavoro in quanto necessita di una rivoluzione nelle forme contrattuali, nell’utilizzo del paradigma della subordinazione, nell’incontro tra il mondo della scuola e del lavoro, nella certificazione delle competenze, nella rete dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nella formazione continua e in molto altro ancora.
 
Sì tratta di un compito arduo che nasce però da una azione banale, ossia dell’osservazione dei dati reali del nostro mercato del lavoro e dal confronto con altri Paesi che stanno scommettendo sull’innovazione. Il primo contributo che si può offrire, sia dal punto di vista del ricercatore che dal punto di vista del legislatore, è di non costruire teorie o leggi che pensino di controllare totalmente la dinamicità della realtà e la creatività della persona ma inizino ad osservarla e, questo sì, ad accompagnarla verso una visione matura che, in quanto ipotesi, non è mai o giusta o sbagliata in partenza, ma verrà valutata e giudicata dalla realtà stessa.
 
Francesco Seghezzi
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez
 
* Pubblicato anche in Nòva, Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2015.
 
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