Il demansionamento unilaterale: una disposizione dai confini evanescenti

Con il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, il Legislatore ha ridisegnato i confini delle disposizioni che regolano l’esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, riscrivendo in toto l’art. 2103, cod. civ.

 

La novella, come evidenziato dai primi commenti, ha introdotto un inedito potere in capo al datore di lavoro di assegnare al lavoratore «mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale» (art. 2103, comma 2, cod. civ.). Ciò a fronte della sussistenza di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che coinvolga necessariamente la posizione del lavoratore stesso. Ed è proprio su questi ultimi requisiti che è necessaria una più attenta riflessione, essendo gli unici “argini” all’esercizio di un potere datoriale potenzialmente dirompente.

 

In realtà la legge 10 dicembre 2014, n. 183 prevedeva – all’art. 1, comma 7, lett. e – che la revisione della disciplina delle mansioni fosse legata a casi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, da individuare attraverso parametri oggettivi (cfr. U. Gargiulo, La revisione della disciplina delle mansioni nel Jobs Act, in Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, a cura di M. Rusciano, L. Zoppoli, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” – Collective Volumes – 3/2014). Un indirizzo dello stesso tenore lo si poteva cogliere anche nel progetto di Codice semplificato del lavoro, presentato dal Senatore Pietro Ichino e dal Professor Michele Tiraboschi, che nella “versione B” di revisione dell’art. 2103 cod. civ., subordinava la liceità del demansionamento unilaterale alla presenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive».

 

Non si può certo affermare che il legislatore delegato abbia rigorosamente richiamato le condizionalità previste, con ciò complicando l’operazione di interpreti ed operatori, che dovranno fare i conti con una norma dai confini evanescenti.

 

Così come la bozza Ichino-Tiraboschi riecheggiava le condizionalità (ormai abrogate) imposte dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 per l’operatività del contratto a termine, i requisiti imposti dalla legge delega richiamano il concetto di “eccedenza” della legge 23 luglio 1991, n. 223, che risulta necessario ma non sufficiente ad imporre una modificazione in pejus dell’oggetto del contratto (ovvero le mansioni, che per il lavoratore significa l’esternazione delle sue peculiari professionalità). In quest’ultimo caso infatti occorre che il processo di riorganizzazione interna in cui è coinvolta l’azienda sia correlato con un solido nesso di causalità alla posizione di ciascun lavoratore.

 

Si può pertanto ragionevolmente presumere che ciò che i giudici chiederanno all’impresa sarà di illustrare analiticamente e in via obiettiva sia l’esistenza di una effettiva riorganizzazione aziendale, sia il nesso di causalità con l’impossibilità di mantenere le medesime mansioni per ogni singolo lavoratore coinvolto. Ed è proprio in questo delicato passaggio che si concentrerà l’esercizio da parte della magistratura di un’ampia discrezionalità; quella stessa discrezionalità che il Governo si è spesso riproposto di ridurre al minimo, per ingenerare un clima di maggiore “certezza del diritto” sino ad oggi minato dal massiccio intervento giudiziale, che ha supplito al ruolo del legislatore.

 

Invero non sono mancati in giurisprudenza esempi di demansionamento ammessi anche solo in presenza di «serie e ragionevoli esigenze di efficienza aziendale», senza che si dovesse dimostrare una particolare riorganizzazione. È questo per esempio il caso deciso dalla Cassazione con sentenza 12 luglio 2002, n. 10187, dove, a fronte del rientro al lavoro di un lavoratore precedentemente sottoposto a misura cautelare, l’unica via praticabile era quella del demansionamento. Con ciò il giudice di legittimità aveva imposto un affievolimento del diritto al mantenimento delle mansioni di assunzione, per aprire la via al diritto prioritario all’occupazione. Quanto basta per dimostrare come le barriere al divieto imposto dall’art. 2103, cod. civ., prima della sua recente modifica, fossero – in taluni casi – già state logorate da taluni orientamenti evolutivi della magistratura di cui sembra aver preso atto il decreto legislativo n. 81/2015.

 

Gli effetti potenzialmente dirompenti della novella si potranno misurare solo con il tempo, quando la Corte di Cassazione sarà chiamata ad interpretare ed applicare il nuovo impianto regolatorio. Quello che appare chiaro sin da ora però è che, nel pur apprezzabile aggiornamento normativo, l’obiettivo di bilanciare i diversi diritti in gioco non è stato completamente raggiunto.

 

Come peraltro è già stato evidenziato su queste pagine da Domenico Iodice e Marco Lai, una più prudente riformulazione tecnica dell’articolo 2103, cod. civ. avrebbe consentito di impedire il proliferare di ulteriori conflitti e conseguenti decisioni, potenzialmente in contrasto tra loro. Una opzione, per esempio, poteva essere quella di affidare alla contrattazione collettiva l’individuazione degli opposti interessi e la loro sintesi, così permettendo una definizione dei concetti ora lasciati all’esercizio interpretativo di operatori e magistrati.

 

Al netto delle criticità fin qui esposte, il datore di lavoro che avesse necessità di operare un mutamento delle mansioni in pejus, per evitare la soccombenza in un eventuale giudizio, dovrà certamente specificare – già nella comunicazione al lavoratore – le esigenze di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, nonché il nesso causale tra tali processi e la posizione del soggetto coinvolto.

 

 

Marco Menegotto

Studente al IV anno di Giurisprudenza

Università degli Studi di Milano

@MarcoMenegotto

 

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