Il coraggio della discontinuità per il Mezzogiorno

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La questione meridionale si è riproposta prepotentemente con quel sondaggio perfetto che è il voto. La polarizzazione implicita nel salto tecnologico, i lunghi anni della depressione e una stagione di politiche indifferenziate che ha premiato i punti forti dell’economia nazionale, hanno accentuato il tradizionale divario territoriale che non ha eguali in Europa. In altri Paesi i differenziali socio-economici sono forse maggiori ma in nessuno l’estensione delle aree arretrate è così ampia. Si combinano ora il declino demografico, la fuga sistematica dei giovani, l’inefficienza istituzionale, i ritardi del sistema di istruzione, le carenze infrastrutturali, i condizionamenti della criminalità organizzata. L’assenza di una visione condivisa e di un conseguente progetto di sviluppo hanno riproposto una domanda assistenziale. Ci sono tutte le ragioni perché il Parlamento riproduca una formale inchiesta sulla condizione delle aree meridionali analoga a quella varata tra il 1875 e il 1876.

 

Anche un governo “minimo” di decantazione, o “delle regole”, sarebbe abilitato a negoziare con l’Unione misure straordinarie nell’ambito della nuova programmazione dei fondi strutturali con particolare attenzione alla necessità di forti differenziali dal punto di vista dei trattamenti tributari delle imprese e del lavoro. Si tratta di andare ben oltre le misure prodotte tardivamente dal governo alla fine della trascorsa legislatura. Si giustificherebbero vere e proprie aree off shore in termini di regole e tasse compensate da robuste forme di controllo sociale. Nuovi e sperimentali contratti di comunità potrebbero esprimere la convergenza tra parti sociali, istituzioni centrali come quelle educative ed enti locali in funzione di una efficace attrazione degli investimenti.

 

Altro che accordi collettivi nazionali monolitici e inderogabili, con tanto di inseguimento ispettivo dei contratti “pirata”, mentre persistono bacini inespugnati di lavoro nero e di caporalato. Servono deroghe coraggiose per accompagnare le start up, favorire lo small business e l’emersione dei lavori, specie nella filiera agroalimentare e turistica, con una progressione retributiva legata alla crescita delle imprese. La formazione del capitale umano dovrebbe essere sostenuta da un più stretto collegamento tra salari e professionalità. Le Regioni si sono rivelate concausa non secondaria del declino del Mezzogiorno per cui potrebbero, liberamente e responsabilmente, devolvere verso l’alto alcune competenze in modo da realizzare grandi progetti per macroaree. Sono necessari grandi investimenti infrastrutturali, puntuali e a rete, liberandoli dal nuovo pauperismo delle opere. Il nostro mezzogiorno è la naturale piattaforma logistica dell’Europa per lo sviluppo dell’intero bacino mediterraneo. Occorre insomma discontinuità vera per la quale le forze politiche premiate dal voto dovrebbero dimostrare capacità di innovazione e di scommessa sui risultati che, ove prodotti, darebbero legittimazione duratura. Se, al contrario, la rappresentanza si risolvesse in mera amplificazione del malessere sociale ed in soluzioni assistenziali ne deriverebbero solo i presupposti di estese rivolte sociali. È certamente impraticabile un governo che prescinda dalle ragioni del nord produttivo ma altrettanto pericoloso si rivelerebbe uno squilibrio politico in danno del sud. Dopo il fallimento del ceto politico meridionale, tocca proprio ai rappresentanti delle terre alte dimostrare lungimiranza e capacità di decisione oltre la facile rincorsa del consenso immediato.

 

Maurizio Sacconi
Presidente Associazione Amici di Marco Biagi
@MaurizioSacconi

 

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Il coraggio della discontinuità per il Mezzogiorno
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