Il contratto unico? Meglio l’apprendistato

Nell’agenda del governo, la questione campeggia alla pagina del mese di marzo, sotto il titolo impegnativo di “Jobs Act”. La riforma del lavoro che il nuovo governo si appresterebbe a varare ha al centro un nuovo contratto unico di inserimento. Ancora da precisare in molti dettagli decisivi, ma con alcuni caratteri già definiti. Il primo: essere limitato a una certa fascia di età, probabilmente al di sotto dei 34 anni, per favorire l’impiego dei giovani. Il secondo: la tipologia a tempo indeterminato, con la possibilità però per le aziende di interrompere il rapporto nei primi tre anni a fronte di un indennizzo economico proporzionato al lavoro svolto. In pratica, verrebbe temporaneamente sospesa l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevede la reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti privi di giustificazione. Il lavoratore licenziato verrebbe per contro affidato a una rete di moderni servizi di ricollocamento verso un nuovo impiego secondo una logica attiva delle politiche del lavoro con contestuale ripensamento del sistema di ammortizzatori sociali. Molti in realtà frenano, ma c’è anche chi si spinge a ipotizzare una sospensione definitiva degli effetti dell’articolo 18 per tutte le nuove assunzioni.
 
 Ma è davvero necessario introdurre un nuovo contratto di ingresso per i giovani dopo appena un anno dalla eliminazione, da parte della riforma Fornero, dei contratti di inserimento della legge Biagi? Non esiste già un contratto – l’apprendistato – che prospetta l’inserimento al lavoro dei giovani in termini non solo di flessibilità, ma anche di vero e proprio sistema dell’incontro tra la domanda e l’offerta del lavoro funzionale ai fabbisogni professionali espressi dalle imprese e al riorientamento della offerta formativa di scuole e università?
 
La scelta di orientarsi verso un contratto unico – nelle diverse declinazioni messe a punto da Pietro Ichino (giuslavorista già senatore Pd ora di Scelta Civica) e da Tito Boeri e Pietro Garibaldi (docenti di economia alla Bocconi e all’Università di Torino) – intende rispondere da un lato al dramma di una disoccupazione giovanile oltre il 40% e dall’altro al fenomeno del precariatocercando di indirizzare le assunzioni verso un unico canale a tempo indeterminato. Secondo l’ultimo monitoraggio dei flussi occupazionali, infatti, i contratti “standard” sono calati ad appena il 15,4% delle assunzioni, il 5,9% sono le collaborazioni a progetto, mentre la gran parte delle assunzioni, il 69,3%, avviene con contratti a termine (in realtà, in un anno si ripetono molte più assunzioni a tempo anche sulla stessa persona e dunque il loro peso nei flussi è percentualmente assai più rilevante di quanto non siano in realtà i lavoratori temporanei sul totale degli occupati, circa il 15%). Alla base delle scelte resta la convinzione che la (troppa) varietà delle forme contrattuali concorra al fenomeno del precariato. Si ipotizza dunque di cancellare alcune tipologie di lavoro (in particolare quelle a chiamata o in condivisione) e di limitare fortemente i contratti a termine. Come “contropartita” di flessibilità, alle aziende verrebbe appunto offerta la possibilità di interrompere il rapporto con un costo certo e senza contenziosi.
 
Un film già visto con la legge Fornero che ha compresso la già limitata propensione delle imprese ad assumere e che non tiene conto del pluralismo e della estrema varietà dei modi di lavorare che certo non possono essere ingabbiati in un unico schema giuridico tanto suggestivo in termini teorici quanto deleterio in chiave di applicazione pratica. Del resto molte ricerche hanno riconosciuto che il problema del precariato giovanile non deriva tanto dal numero delle forme contrattuali esistenti, quanto piuttosto da un lato ai comportamenti opportunistici sul piano economico e normativo dei datori di lavoro e dall’altro al difficile incontro tra competenze, titolo di studio e fabbisogni delle aziende. Quest’ultimo problema è confermato dalle rilevazioni di Unioncamere, secondo cui le imprese continuano a lamentare la difficile reperibilità di molte figure professionali. Riguardo invece ai comportamenti opportunistici dei datori di lavoro, è interessante notare ciò che è accaduto con la nuova regolamentazione dei tirocini. L’obbligo di corrispondere una remunerazione minima ha finito per far assomigliare anche lo stage formativo a un vero e proprio contratto di lavoro, una sorta di mini-job per giovani. Un’occasione che le imprese si sono subito affrettate a “sfruttare”, sentendosi a quel punto pienamente autorizzate a chiedere agli stagisti, in cambio di qualche centinaia di euro al mese, vere e proprie prestazioni lavorative.  
 
Ma se si riconosce che i nodi da affrontare per combattere la disoccupazione giovanile attengono soprattutto ai tre fattori appena ricordati – costi, flessibilità normativa e gap formativoil Paese dispone già dello strumento più adatto per rispondervi: appunto il contratto di apprendistato. Nelle sue tre forme – per l’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione; professionalizzante; di alta formazione – l’apprendistato offre infatti una gamma di risposte efficaci a diversi bisogni. Dei giovani anzitutto: da quelli che hanno abbandonato la scuola e possono così completare il percorso scolastico, a coloro che intendono imparare sui banconi un mestiere o una professione. Fino a quei ragazzi che, lavorando, possono completare un percorso di istruzione di alto livello, con la laurea o un master, sfruttando a pieno pure le competenze acquisite “on the job”. Sul piano normativo i contratti di apprendistato, di durata variabile tra 6 e 42 mesi, sono già a tempo indeterminato, pur prevedendo la possibilità per il datore di lavoro di non confermare l’assunzione alla conclusione del periodo di formazione. L’apprendistato è poi particolarmente conveniente sul piano economico, prevedendo la possibilità di sottoinquadramento salariale dei lavoratori e una netta decontribuzione. Soprattutto, però, l’apprendistato è la tipologia contrattuale che meglio può garantire alle imprese la possibilità di formare e qualificare il personale secondo i propri fabbisogni. E, dall’altro lato, offre ai ragazzi la possibilità di usufruire di formazione sia all’interno sia all’esterno dell’azienda.  
 
Non a caso in Germania – dove l’apprendistato e il sistema duale di alternanza tra scuola e lavoro sono particolarmente diffusi – il livello di disoccupazione giovanile è inferiore all’8% e soprattutto non si discosta molto dal dato generale (5,1%), mentre in Italia il tasso di giovani senza lavoro (41%) è oltre il triplo di quello relativo alla disoccupazione in generale (12,7%). Più che ideare un nuovo contratto unico a tutele crescenti, dunque, meglio sarebbe puntare con decisione a rafforzare l’apprendistato come canale di accesso privilegiato per i giovani al mondo del lavoro. E interrogarsi seriamente sulle cause che ancora oggi – dopo due importanti riforme – ne limitano il ricorso da parte delle imprese ad appena il 3% delle assunzioni. Può essere che, in taluni casi l’applicazione pratica dell’apprendistato sia frenata da un eccesso di formalismo e di burocrazia come denunciano talune associazioni datoriali. Vero è però che l’apprendistato ancora non funziona perché manca un sistema di integrazione scuola lavoro entro cui collocarlo. Difficile formare una giovane in azienda quando manca ancora una analisti sistematica dei fabbisogni professionali e formativo di un settore produttivo e dei territorio. Ancor più difficile formare un giovane al termine del percorso scolastico o universitario là dove le esperienze di successo indicano che l’apprendistato funziona quando è parte dei percorsi educativi e formativi e non un semplice contratto di lavoro.  
 
Sullo sfondo pesa il pregiudizio sulla valenza formativa del lavoro e l’eccesso di attenzione ai profili formali e contrattuali, quando invece l’apprendistato è una esaltazione del profilo soggettivo del lavoro e cioè la relazione tra un giovane e un adulto che lo introduce ai segreti del suo mestiere. Impossibile avere apprendisti se il sistema produttivo e la società in generale non sono più dotate di Maestri e di robusti percorsi di orientamento nelle scelte educative e professionali.
 
Il contratto unico è un ottimo slogan, ma alla prova dei fatti potrebbe rivelarsi come l’ennesima falsa risposta al dramma di una generazione oggi senza futuro perché ad essere in crisi, prima di ogni altra cosa, è il sistema educativo che non parte solo dalla impresa e dalla scuola ma investe genitori ed educatori. Una generazione di giovani, alla quale va invece restituito l’orgoglio del fare, di crescere come persone lavorando, assieme alla certezza che lo studio e l’impegno sono l’unica garanzia di un’occupazione che non dipende da leggi e incentivi ma prima di tutto da competenze e professionali spendibili sul mercato del lavoro.  
 
Francesco Riccardi
Giornalista di Avvenire
@f_riccardi  
 
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
 



* Il presente articolo è pubblicato anche in Avvenire, 26 febbraio 2014.
Il contratto unico? Meglio l’apprendistato
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