Il contratto collettivo di riferimento ai fini previdenziali: riflessioni critiche sulla circolare INL n. 1/2020

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Bollettino speciale ADAPT 6 luglio 2020, n. 27

 

In piena emergenza Covid-19, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha diramato la circolare n. 1 dell’11 marzo 2020, ove si forniscono istruzioni operative in materia di vigilanza sull’inquadramento previdenziale delle imprese.

 

Tra le varie questioni affrontate, l’Ispettorato si pronuncia anche sull’individuazione del contratto collettivo di riferimento per determinare la retribuzione imponibile ai fini previdenziali.

Secondo la circolare, la classificazione previdenziale dei datori di lavoro effettuata dall’Inps in base all’attività svolta ha delle ricadute anche sull’individuazione del C.c.n.l. applicabile per determinare la retribuzione da assoggettare a contribuzione ai sensi dell’art. 1, c. 1, d. l. n. 338/1989. In particolare – prosegue l’Ispettorato – la categoria dell’attività di impresa di cui all’art. 2070 c.c. rileva sia per l’inquadramento aziendale ai sensi della l. n. 88/1989, sia per il calcolo della contribuzione obbligatoria sugli importi delle retribuzioni previste dai contratti collettivi c.d. leader nella categoria di riferimento.

 

Infine, la circolare conclude ritenendo che in via amministrativa il concetto di categoria, menzionato nelle predette norme, possa essere direttamente ricondotto al codice contributivo statistico attribuito dall’Inps all’azienda e pertanto, qualora l’Ispettore riscontri l’applicazione di un contratto collettivo non rispondente al settore produttivo di appartenenza dell’impresa, potranno essere adottati i relativi provvedimenti di recupero contributivo.

 

L’interpretazione proposta solleva alcune perplessità alla luce dei principi della materia.

Il combinato disposto dell’art. 1, c. 1, d. l. n. 338/1989 e dell’art. 2, c. 25, l. n. 549/1995 rinvia per la determinazione del minimale contributivo ai contratti collettivi stipulati nella categoria dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative su base nazionale.

Le norme si riferiscono alla categoria merceologica, ma non specificano in cosa consista tale concetto né quali criteri debbano essere utilizzati per determinarne la latitudine.

 

L’Ispettorato adotta il canone ex art. 2070, c. 1, c.c., ai sensi del quale «l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore».

 

Tuttavia questo criterio – elaborato nella vigenza dell’ordinamento corporativo – è incompatibile con il principio di libera autodeterminazione sindacale enunciato dall’ art. 39 Cost., per cui i confini della categoria possono essere individuati solo dalla volontà delle parti che hanno stipulato il contratto collettivo e, dunque, nel contratto stesso.

 

Di conseguenza, un conto è la classificazione ai fini previdenziali tradottasi nell’attribuzione del codice contributivo statistico, che rileva per la determinazione delle aliquote contributive, per l’accesso a sgravi contributivi o ai trattamenti di integrazione salariale[1]; un altro invece è la definizione della categoria merceologica di riferimento nell’applicare la contrattazione collettiva, che pertiene unicamente alla stessa contrattazione.

Ne discende che la latitudine della categoria, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, deve essere individuata secondo gli ordinari canoni ermeneutici previsti dagli artt. 1362 ss. c.c., validi anche per i contratti collettivi in quanto contratti di diritto comune (sui criteri di interpretazione, cfr. Cass. 30 settembre 2014, n. 20599). Ciò comporta una lieve ma importante sfumatura concettuale rispetto alla mera applicazione dell’art. 2070, c. 1, c.c., nel senso che senz’altro rileva l’attività svolta dall’imprenditore, ma la categoria di riferimento può essere delineata unicamente dalle parti, datoriali e sindacali, che hanno stipulato il contratto e non dall’Ispettorato, né dall’Istituto previdenziale.

 

Alla luce delle norme codicistiche, la ricostruzione della volontà sindacale tradottasi nel contratto collettivo deve in primo luogo fare riferimento alla regola che impone il rispetto del significato letterale delle espressioni usate, quando esso risulti univoco e, ove ciò non avvenga, anche a criteri sussidiari, come ad esempio il comportamento delle parti.

In concreto, l’operazione interpretativa dovrebbe articolarsi nei seguenti passaggi:

  1. devono essere esaminate le clausole che definiscono l’ambito di applicazione del contratto, attraverso un’operazione sussuntiva che verifichi se le attività svolte dall’impresa siano espressamente richiamate;
  2. ove tale operazione desse esito incerto, si dovrà procedere all’analisi di altre clausole contrattuali, e in particolare di quelle relative alle declaratorie professionali, per verificare se le figure ivi ricomprese siano analoghe a quelle presenti in azienda;
  3. inoltre dovrà valutarsi il comportamento delle parti successivo alla stipula del contratto. Sotto quest’ultimo profilo, potrà rilevare anche l’eventuale iscrizione del datore di lavoro all’associazione stipulante, qualora da tale iscrizione discenda l’inquadramento dello stesso nei livelli associativi territoriali, settoriali e/o categoriali corrispondenti alla sua attività economica, a conferma di come l’attività esercitata sia ricompresa nella sfera di applicazione del contratto. Quindi, nell’ambito del criterio oggettivo riaffiora e assume rilevanza anche la libera scelta soggettiva di applicare il contratto.

Da ultimo, preme ricordare che nel caso di concorrenza tra più contratti collettivi un’eventuale contestazione dell’Ispettorato deve poggiare non solo sull’individuazione della categoria di riferimento, ma anche sulla dimostrazione della maggiore rappresentatività comparata delle associazioni stipulanti il contratto, pena altrimenti l’infondatezza dell’accertamento (così Cass. 23 aprile 1999, n. 4074).

 

Giovanna Pistore

Dottore di ricerca, Università di Padova

 

[1] Nello specifico, l’art. 49, c. 1, l. n. 88/1989 prevede che la classificazione dei datori di lavoro disposta dall’Inps abbia effetto «a tutti i fini previdenziali ed assistenziali». La norma individua quindi sei settori di riferimento (industria, artigianato, agricoltura, terziario, credito assicurazione e tributi, a cui si aggiungono le attività varie) e, per ciascun settore, le attività che vi sono ricomprese. Attualmente, dopo l’adozione di una nomenclatura unica delle attività economiche basata sulla codifica ATECO 2007, l’Istituto tendenzialmente si limita a ricondurre al codice ATECO indicato dall’impresa alla Camera di commercio uno specifico codice contributivo statistico, che determina l’inquadramento previdenziale. Tale procedura automatizzata non modifica però la possibilità per l’Inps di attribuire ai datori di lavoro una classificazione nel settore di riferimento in relazione all’attività effettivamente esercitata con i dipendenti assunti (v. Circolare Inps n. 80/2014).

 

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