I perimetri del campo di applicazione del contributo addizionale per il rinnovo del contratto a termine (art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87/2018)

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Bollettino ADAPT 14 ottobre 2019, n. 36

 

Il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 convertito in legge 9 agosto 2018, n. 96 (c.d. Decreto Dignità), con l’obiettivo di calmierare l’utilizzo di specifiche tipologie contrattuali flessibili, ha aumentato l’importo del contributo addizionale (oggi, pari allo 0,50%) da versare ogni volta che viene rinnovato il contratto di lavoro a tempo determinato. All’art. 3, comma 2 del decreto è previsto, infatti, che “il   contributo addizionale è aumentato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione. Le disposizioni del precedente periodo non si applicano ai contratti di lavoro domestico”. Questo comma va ad integrare l’art. 2, comma 28 della legge 28 giugno 2012, n. 92 che aveva istituito un contributo addizionale, pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali per finanziare la Naspi relativa ai i “rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato”.

 

L’integrazione della disposizione, che ha modificato l’importo quantitativo del contributo, è stata oggetto di interpretazioni, ad avviso di chi scrive, abbastanza dubbie in quanto dal tenore letterale delle norme coinvolte, è possibile ritenere che il contributo addizionale dell’1,4% andrebbe applicato a tutti quei rapporti che sono caratterizzati da una durata prestabilita; mentre, l’aggiunta del contributo pari allo 0,5% riguarderebbe – per espressa previsione di legge – solo il rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione, oggi disciplinato dall’art. 19 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015 (capo III); rinnovo che ricorre solo nel caso in cui vi siano mansioni di pari livello e categoria legale a quelle indicate nel primo contratto. In altri termini, al versamento di questo contributo ulteriore non sarebbero obbligati quei datori di lavoro che ad esempio stipulano e rinnovano un contratto di lavoro intermittente a tempo determinato o che stipulano contratti che, sebbene a termine, non si possano considerare dei veri e propri rinnovi contrattuali.

 

Prima ipotesi di esclusione di applicazione del contributo: dal contratto di somministrazione a termine al contratto a tempo determinato. Può parlarsi di rinnovo contrattuale?

 

Con l’emanazione della circolare n. 121 del 6 settembre 2019, l’Inps ha precisato che “l’articolo 3, comma 2, del decreto dignità ha previsto l’incremento del predetto contributo addizionale in occasione di ogni rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione di lavoro. Sul piano generale, la fattispecie del rinnovo del contratto di lavoro a tempo determinato ricorre quando l’iniziale contratto raggiunge la scadenza originariamente prevista (o successivamente prorogata) e le parti procedono alla sottoscrizione di un ulteriore contratto a termine. Tuttavia, considerato che il decreto dignità ha esteso la nuova disciplina dei rapporti a termine anche alla somministrazione di lavoratori assunti a tempo determinato, l’aumento del contributo addizionale NASpI opera anche nei casi in cui lo stesso utilizzatore abbia instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore ovvero nell’ipotesi inversa. Inoltre, a seguito di interlocuzione con il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, si deve precisare che il suddetto Dicastero ha chiarito che “[…] qualora venga modificata la causale originariamente apposta al contratto a termine si configuri un rinnovo e non una proroga anche se l’ulteriore contratto segua il precedente senza soluzione di continuità. In tale ipotesi trattandosi di rinnovo l’incremento del contributo addizionale è dovuto”.

 

Fermo restando la condivisibile interpretazione circa l’obbligo del versamento del contributo nel caso in cui venga modificata la causale originariamente apposta, le restanti posizioni assunte dall’Inps nella circolare possono essere contestate (comprese quelle del Ministero) sulla base delle seguenti ragioni.  Sovente capita che un’azienda impieghi un dipendente in somministrazione a tempo determinato per un periodo – a titolo di esempio – di 5 mesi e allo scadere di questi voglia assumere direttamente il dipendente con un contratto di lavoro a tempo determinato. L’attuale disposizione riguardante la durata massima del contratto a termine (cfr. art. 19, comma 2 del decreto legislativo n. 81 del 2015) stabilisce che “la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i ventiquattro mesi. Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato”.

 

Come si intuisce dalla formulazione della disposizione, il legislatore prevede una cumulabilità, ai fini del computo per il raggiungimento della durata massima, tra la durata del contratto a termine e la durata del contratto di somministrazione a termine. Sennonché, il problema sorge in relazione alla necessità di apporre o meno la causale al contratto a termine successivamente stipulato a quello di somministrazione a termine e quindi valutare se ci si trovi difronte ad un rinnovo oppure no. Attenendosi alla lettera della norma, sembrerebbe che il legislatore volesse disciplinare – con l’evidente finalità di scongiurare pratiche elusive della disciplina dei rapporti di lavoro a termine – solo il cumulo dei periodi tra le due tipologie contrattuali e non anche incidere sul passaggio dall’una all’altra. In altre parole, l’azienda potrebbe ricorrere senza dubbio alla stipula di un successivo contratto a termine, senza necessità di apporvi la causale, ma che abbia una durata massima pari alla differenza tra il tetto massimo a-causale fissato dalla legge (12 mesi, come prevede l’art. 19, comma 1 del decreto legislativo n. 81 del 2015) e la durata del primo contratto di somministrazione a termine. Ricollegandoci all’esempio sopra esposto, l’azienda potrebbe stipulare un contratto a termine a-causale di 7 mesi, ottenuti dalla differenza tra i 12 mesi indicati dall’art. 19, comma 1 come periodo massimo a-causale e i 5 mesi nell’ambito dei quali il lavoratore già è stato impiegato con contratto di somministrazione a termine; solo allo scadere dei 7 mesi, sia in caso di proroga che di rinnovo sarà necessario indicare una delle motivazioni di cui all’art. 19, comma 1, lett. a) e b) del decreto legislativo n. 81 del 2015. E solo in questo caso, se il contratto dovesse essere rinnovato allo scadere dei 7 mesi, sarebbe dovuto il contributo di cui all’art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87 del 2018.

 

Questa interpretazione fa leva su due aspetti. Il primo riguarda la formulazione della norma; infatti, il legislatore tiene a precisare che ai fini della durata massima rileva anche il periodo del lavoratore impiegato in somministrazione ma non interviene nella regolazione della successione dei rapporti tra il contratto di somministrazione e quello a tempo determinato. Il secondo aspetto riguarda, invece, la inconciliabile sovrapposizione di due tipologie contrattuali diverse; non sarebbe infatti possibile considerare il passaggio da un contratto di somministrazione a termine ad un contratto a tempo determinato come un “rinnovo” contrattuale, in quanto posto che quest’ultimo è nient’altro che una “rinegoziazione” del contratto, deve necessariamente riguardare la medesima fattispecie contrattuale e non altre tipologie, seppur contigue. Pertanto, il successivo contratto a termine, dovrà considerarsi come un contratto di lavoro ex novo ma con un periodo di a-causalità ridotto, a causa dell’espressa previsione di legge circa il computo dei periodi ai fini del calcolo della durata massima (cfr. G. Piglialarmi, Contratto di lavoro a termine e somministrazione: un’ipotesi peculiare di rinnovo, in Bollettino Adapt, 11 febbraio 2019, n. 6).

 

Peraltro, la lettura offerta dal Ministero del Lavoro (cfr. circolare n. 17 del 31 ottobre 2018) e dall’Inps (cfr. circolare n. 121 del 6 settembre 2019) è incompleta nella parte in cui non illustra se nel passaggio da una tipologia contrattuale all’altra, occorre rispettare il periodo di fermo (c.d. Stop&go). Infatti, in relazione all’esempio sopra citato, ci troveremmo in una situazione differente in dipendenza della casistica. Dal passaggio di un contratto a termine a un contratto di somministrazione a termine, il problema dello Stop&go non si porrebbe in quanto l’art. 31 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015 ne prevede l’esclusione. Viceversa, nell’ipotesi in cui dalla somministrazione a termine si passi al contratto a termine, si applica la disciplina integrale del rinnovo e quindi oltre al contributo addizionale, il datore di lavoro deve prestare attenzione anche al conteggio dei giorni. Se così non fosse, vi sarebbero ulteriori motivazioni per ritenere la posizione interpretativa del Ministero e dell’Inps del tutto arbitraria. A tal proposito, l’ANCL ha presentato un interpello al Ministero del Lavoro per prospettare una più corretta interpretazione della norma rispetto alla sua formazione letterale.

 

Seconda ipotesi di esclusione di applicazione del contributo: è dovuto in caso di rinnovo del contratto di lavoro subordinato intermittente a tempo determinato?

 

La circolare Inps n. 121 del 2019, inoltre, presenta un passaggio fortemente equivoco: “in ordine all’ambito di applicazione della norma in discorso [l’art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87 del 2018], si rileva come l’incremento del contributo addizionale sia dovuto con riferimento al rinnovo di ogni tipologia di contratto a termine al quale si applica il contributo addizionale, ivi compresi i contratti che regolano il rapporto di lavoro nel settore marittimo.

 

Sulla scia di questa dubbia interpretazione dell’Istituto, è stato di recente sostenuto che “l’aumento della contribuzione addizionale dello 0,50 per cento per il rinnovo dei contratti a termine si ritiene applicabile anche al contratto di lavoro intermettente a tempo determinato pur in mancanza di una specifica previsione normativa in tal senso” (cfr. M. Marucci, Rinnovo dei contratti a termine, incremento della contribuzione addizionale anche nell’intermittente, in IlSole24ore, 2 ottobre 2019). Secondo questa lettura, quindi, l’art. 2, comma 28 della legge n. 92 del 2012 così come modificato dall’art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87 del 2018 si prefiggerebbe l’obiettivo di disincentivare il ricorso al lavoro precario, in qualunque forma, attraverso un innalzamento del costo del finanziamento della Naspi. Peraltro, siccome nell’interpello n. 15 del 2013 il Ministero del Lavoro aveva chiarito che il contributo addizionale dell’1,4% si sarebbe applicato anche al lavoro intermittente a termine, “logica pretende che la maggiorazione dello 0,50 per cento in caso di rinnovo debba essere applicata anche a tale fattispecie contrattuale” a nulla valendo “il requisito di specialità del contratto intermittente a termine”.

 

Questa interpretazione non può essere condivisa e merita di essere decostruita in quanto nell’attività interpretativa è necessario seguire il criterio letterale, come imposto dall’art. 12 delle preleggi. Infatti, l’interpello n. 15 del 2013 ha fondate ragioni normative per poter sostenere che il contributo dell’1,4% della retribuzione imponibile si applichi anche al lavoro intermittente a termine: l’art. 2, comma 28, infatti, fa riferimento ai “rapporti di lavoro subordinato non a tempo indeterminato”. Dalla formulazione volutamente ampia, quindi, si evince che il contributo va applicato a tutte quelle tipologie contrattuali riconducibili al rapporto di lavoro subordinato ma che sono caratterizzate dall’apposizione di un termine. In altri termini, il legislatore non fa riferimento a nessuna tipologia contrattuale ma ad un generico rapporto di lavoro a termine. Diversamente, il comma aggiunto dall’art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87 del 2018 è ben preciso nel delineare il campo di applicazione dell’ulteriore contributo dello 0,5%: esso si applica a “ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in regime di somministrazione”. Il riferimento alla sola tipologia contrattuale di cui art. 19 del d.lgs. n. 81 del 2015 è inequivocabile, anche grazie all’utilizzo della preposizione articolata “del” (contratto a termine) e non “di” (contratti a termine). Pertanto, il contributo ulteriore dello 0,5% si applica solo alle tipologie contrattuali del capo III e del capo IV del d.lgs. n. 81 del 2015. Se il legislatore avesse voluto applicare lo 0,5% anche al rapporto di lavoro a chiamata a tempo determinato, avrebbe ripreso la formulazione dell’art. 2, comma 28 della legge n. 92 del 2012. Diversamente, deve ritenersi che per i rapporti a termine di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 81 del 2015 il contributo aggiuntivo di cui all’art. 3, comma 2 del c.d. Decreto Dignità non può trovare applicazione.

 

A tal proposito, va necessariamente ricordato che già il Ministero del Lavoro, prima con l’emanazione della circolare n. 4 del 3 febbraio 2005 e successivamente con l’interpello n. 72 del 12 ottobre 2009, ebbe modo di ricordare che il lavoro intermittente è “una fattispecie lavorativa sui generis”; infatti, ad esso “non è applicabile la disciplina del decreto legislativo n. 368 del 2001, che infatti non è espressamente richiamata dal decreto legislativo n. 276 del 2003 (…)”. In questa prospettiva, riteniamo che le argomentazioni ministeriali siano ancora valide. Infatti, mentre l’art. 34, comma 2 dispone che “in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III”, all’art. 13 del d.lgs. n. 81 del 2015 non è previsto che il lavoro a chiamata a tempo determinato si avvalga delle regole dettate dal capo III del medesimo decreto. Conseguentemente, l’intera disciplina che presidia il lavoro a tempo determinato non può essere applicata de plano anche al lavoro a chiamata a termine e a qualsiasi rapporto a termine se non vi è un espresso richiamo.

 

Le argomentazioni del Ministero del lavoro sono ancora più convincenti laddove si osserva ratione temporis che “la disciplina dei contratti a tempo determinato prevede espressamente che l’apposizione del termine è consentita solo “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”. La premessa necessaria, dunque, alla stipulazione del contratto a termine, come disciplinata nell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001, non coincide affatto con i presupposti in base ai quali si effettua la sottoscrizione di contratti di lavoro intermittente, a conferma della sostanziale differenza delle due tipologie contrattuali, comunque disciplinate da normative differenti. In altri termini il cd. “causalone” previsto dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 e proprio dei contratti a termine, risulta inappropriato nel caso del lavoro intermittente in quanto quest’ultimo è connotato dalla modulazione flessibile della prestazione, impossibile da predeterminare a priori”.

 

In conclusione, quindi, riteniamo che mentre il contributo di cui all’art. 2, comma 28 della legge 92 del 2012 (1,4%) trovi un’applicazione generalizzata (compresi il lavoro a chiamata a termine e forse – data la formulazione generale e aperta della norma – anche i rapporti di collaborazione etero-organizzati a termine di cui all’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81 del 2015), il contributo aggiuntivo di cui all’art. 3, comma 2 del Decreto Dignità trova applicazione solo nel caso di rinnovo del contratto a termine sottoscritto ai sensi dell’art. 19 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2015.

 

Dario Montanaro

Presidente ANCL

@dodovivax

 

Giovanni Piglialarmi

Assegnista di ricerca presso il centro studi DEAL (Diritto Economia Ambiente Lavoro)
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Gio_Piglialarmi

 

I perimetri del campo di applicazione del contributo addizionale per il rinnovo del contratto a termine (art. 3, comma 2 del decreto-legge n. 87/2018)
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