Politically (in)correct – I falsi idoli che hanno determinato l’esito del voto del 4 marzo

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Sir Francis Bacon, chi era costui? Filosofo della scienza dell’epoca elisabettiana nella pars destruens del suo Novum Organum  descrive gli errori da cui occorre liberare la mentalità per conquistare il metodo della ricerca della verità ed affermare il progresso della scienza. Errori, a suo avviso, riferibili alle seguenti cause: a) rimanere attaccati alle proprie idee più che alla realtà; b) essere insofferenti per il dubbio; c) attribuire false finalità alla conoscenza. Purificata la mente da questi errori, afferma il filosofo, «la scienza non sarà più né una cortigiana, strumento di voluttà, né una serva, strumento di guadagno, ma una sposa legittima, rispettata e rispettabile, feconda di nobil prole, di vantaggi reali, e di oneste delizie». Dopo aver parlato delle cause, Sir Bacon elenca gli errori che chiama “idoli” poiché l’uomo li onora al posto del vero Dio, della verità: «Gli idoli e le false nozioni che sono penetrati nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità ma addirittura (una volta che questo accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia anche nella stessa instaurazione delle scienze: a meno che gli uomini preavvertiti non si agguerriscano per quanto è possibile contro di essi…».

 

Qualcuno forse troverà da ridire se abbiamo scomodato una personalità vissuta secoli or sono (uomo di multiforme ingegno si diceva pure che fosse il vero autore dei capolavori di William Shakespeare) per spiegare le ragioni del voto che ha sconvolto l’equilibrio politico del Paese, lo scorso 4 marzo. Ma – possiamo sbagliarci – niente è in grado di chiarire meglio tali ragioni se non il concetto di “idoli”, adorati al posto della verità. Una verità, peraltro, a portata di mano per chiunque abbia l’onestà intellettuale di accettarla nella sua evidenza.

 

Durante la campagna elettorale le forze sovranpopuliste, avvertite delle esperienze fallimentari dei loro sodali negli altri Paesi europei, hanno messo in sordina le posizioni (anti-europeiste ed anti-euro) sbandierate con orgoglio fino a poco tempo prima. Ma il sottofondo è rimasto, appena coperto da una patina di opportunismo, nella rivendicazione di una sovranità nazionale che si esprima attraverso quella monetaria; e che per ora si accontenta di non tener conto degli impegni assunti con i partner sul terreno dei bilanci pubblici in nome del primato di un incomprensibile “interesse nazionale” a fare deficit, ad implementare il debito a carico delle future generazioni e, magari, a stampare moneta propria, incuranti del rischio-inflazione.

 

La “vulgata” è che l’economia italiana non può permettersi una moneta forte che le impedisce (sic!) le “svalutazioni competitive”. Il fatto che la nostra struttura produttiva sia riuscita a tirare il fiato nei mesi più duri della crisi grazie alle esportazioni e che nel 2017 abbia avuto delle performance migliori di tutti i Paesi europei non viene neppure preso in considerazione. A pari merito di idiozia nessuno spiega che cosa sarebbe successo alla liretta senza avere alle spalle la Bce e il QE quando si dovevano acquistare, a tassi d’interesse “politici”, quei titoli di Stato indispensabili per tirare avanti.

 

Ma la più astiosa malafede la incutono altri idoli “falsi e bugiardi”. Nei giorni scorsi diversi esponenti della Cgil hanno attribuito la sconfitta del Pd alla mancata correzione della riforma Fornero delle pensioni e al jobs act (tralasciamo le invettive contro la “Buona scuola”): un provvedimento – quest’ultimo – non degno di un governo di sinistra perché lesivo dei diritti dei lavoratori. Cominciamo dalle pensioni. Si racconta (ormai si dà credito persino alle battute dei comici) che gli italiani non possono più andare in quiescenza, salvo essere costretti a sottoporsi alle “avvilenti” pratiche dell’Ape. Si vede che decine di migliaia di nostri concittadini vanno in pensione a loro insaputa, perché i dati effettivi risultano assai diversi da quelli che sono percepiti. Da ultimo, ne ha parlato ex cathedra il presidente dell’Inps Tito Boeri e ne ha scritto su La Repubblica, a commento delle statistiche fornite puntualmente dall’Istituto, Stefano Patriarca. Limitatamente ai settori privati, dipendenti ed autonomi, il 77% dei nuovi pensionati ha meno di 65 anni e il 30% non arriva a 60 anni. Nel 2017 vi è stato un incremento di spesa per pensioni di 4,7 miliardi di cui il 55% è andato a trattamenti anticipati e un miliardo a soggetti con meno di 60 anni. Lo stock delle pensioni di anzianità è pari a 4,3 milioni (per una spesa complessiva di 94 miliardi, il 52% del totale) contro 4,7 milioni di vecchiaia (con un onere di 42 miliardi, pari 34% del totale che include ovviamente anche l’invalidità e i superstiti). E che dire dell’importo delle pensioni? I quotidiani hanno sparato titoli a molte colonne, rimbalzati subito sui talk show, denunciando che 7 assegni su 10 sono inferiori a mille euro mensili. Nell’esporre questi dati Tito Boeri si è affrettato ad aggiungere che ciò non è necessariamente indice di povertà, perché molti di questi soggetti percepiscono altre pensioni o dispongono di altri redditi, dal momento che solo il 44% di coloro che prendono meno di 750 euro mensili fruiscono delle integrazioni previste per chi non ha altre fonti di sussistenza.

 

Quanto al pacchetto del jobs act , su di esso si scatenano le accuse di aver ridotto le tutele contro il licenziamento e le coperture degli ammortizzatori sociali (stendendo un velo d’oblio sulla loro estensione tendenzialmente universalistica) e di aver ampliato il c.d. precariato. Non conta dire – statistiche alla mano – che il tasso d’occupazione è tornato ai livelli del 2008. Banditi i voucher, ridimensionate le collaborazioni, ora sono imputati i contratti a termine, prevalenti nei flussi, ma sostanzialmente allineati con gli standard europei negli stock. Come ha dimostrato, di nuovo, Stefano Patriarca su “l Diario del lavoro” va smentita anche l’affermazione che c’è un po’ di occupazione in più, ma è tutta precaria, volatile, destinata a sparire al primo stormir di fronte. Di quel milione di nuovi posti di lavoro complessivi creati dal momento dell’entrata in crisi, il 57% è a termine, il 43% a tempo indeterminato. Ma è utile fare anche un po’ di confronti internazionali per capire come davvero stanno le cose. Nel 2016, l’anno di cui si hanno i dati un po’ di tutti i Paesi, l’occupazione a tempo indeterminato è stata in Italia pari all’86,0%, sopra la media europea che è risultata pari all’84,4%. Stiamo peggio della Germania, che ha a tempo indeterminato l’86,8% dei suoi occupati, ma meglio della Francia (83,9%), della Svezia felix (83,9%) e dell’Olanda (79,4%).

 

Ecco alcuni idoli perversi e radicati: riusciranno le persone preavvertite ad agguerrirsi per quanto è possibile contro di essi? Per ora basterebbe ridurre le proporzioni della sconfitta, come a Dunkerque. Poi verrà anche l’ora dello sbarco in Normandia.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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