Governare l’incertezza attraverso la contrattazione collettiva

La seguente relazione rappresenta una sintesi del seminario dal titolo La contrattazione collettiva in Europa e il governo dell’incertezza, tenutosi il giorno 23 settembre 2015 presso il Dipartimento di Scienze sociali ed economiche (DiSSE) dell’Università di Roma La Sapienza.

 

Il seminario è stato aperto dalla relazione di Maarten Keune, docente all’Università di Amsterdam e Direttore dell’Amsterdam Institute for Advanced Labour Studies (AIAS), con un ritratto chiaro ma non troppo felice dello stato delle relazioni industriali nel Vecchio Continente.

La volatilità del settore finanziario e l’imprevedibilità dei mercati, sommate a un incremento della disoccupazione e a politiche di austerità nel settore pubblico, hanno contribuito alla diffusione di una crescente incertezza nel tessuto economico e sociale dei Paesi europei. I tentativi di governare questa “incertezza” spaziano da interventi finalizzati alla regolazione del settore finanziario e commerciale all’implementazione di politiche economiche e sociali, soprattutto nell’ambito del diritto del lavoro. In questo contesto, Keune sottolinea l’emergere di due fenomeni distinti, ma strettamente connessi tra loro: il decentramento contrattuale e il declino della membership del sindacato, con conseguente perdita di forza rappresentativa.  Relativamente al primo aspetto, Keune evidenzia il dispiegarsi di due configurazioni principali nella contrattazione decentrata:

  • la variante del decentramento organizzato: rintracciabile nei Paesi dell’Europa del Nord e occidentale, soprattutto in Germania, dove molto spazio viene lasciato alla contrattazione di livello aziendale, grazie alla quale le aziende riescono a godere di maggior libertà di azione per raggiungere i propri obiettivi produttivi e in cui le clausole di elasticità, inizialmente concepite per far fronte a situazioni di estrema difficoltà economica, sono diventate parte integrante degli accordi aziendali;
  • la variante del decentramento disorganizzato: maggiormente radicata in Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia, trova rinforzo nella debolezza dell’impianto dei contratti collettivi nazionali e nell’inversione del principio della derogabilità in melius (secondo il quale i contratti di secondo livello possono solo offrire condizioni migliori per i lavoratori rispetto a quanto previsto dalla contrattazione nazionale).

Strettamente collegata al decentramento, una tendenza ormai galoppante è rappresentata dalla perdita di copertura della contrattazione collettiva, dovuta da un lato all’esodo, tanto da parte dei lavoratori che delle aziende, dalle organizzazioni di rappresentanza; dall’altro lato, a un minore ricorso alla contrattazione di settore, fino alla perdita da parte dei sindacati della capacità di portare i rappresentanti delle aziende al tavolo delle trattative: tutti fattori, dunque, che hanno gradualmente indebolito l’incisività della contrattazione collettiva nella maggior parte dei Paesi europei.

Viceversa, secondo Keune, a partire da un bilanciamento tra gli indici di produttività, i costi e i livelli salariali, dall’implementazione di un sistema di flexsecurity, e supportando le parti sociali nella definizione di regole e procedure più efficienti, la contrattazione può giocare un ruolo chiave nella garanzia di condizioni di lavoro più sostenibili, nella riduzione della diseguaglianza e, in definitiva, nella “lotta all’incertezza”.

 

Il processo di trasformazione in atto nel panorama europeo della contrattazione collettiva è stato analizzato anche da Valeria Pulignano (KU Leuven University) che, nello studio Development in collective bargaining in Western Europe: origin, pressures, dynamics and changing agend, mette in luce la tendenza generale dei Paesi dell’Europa occidentale ad andare verso forme di competition oriented bargaining. La contrattazione, quindi, acquista il ruolo di strumento finalizzato a stimolare la competitività aziendale e, in quest’ottica, molte imprese si sono orientate verso un distacco dalle organizzazioni di categoria, al fine di disdettare il CCNL e firmare accordi di primo livello. Questo orientamento è strettamente correlato anche al tema del decentramento contrattuale: i contratti nazionali continuano a mantenere un valore esclusivo di framework agreement mentre assistiamo ad una crescita delle pratiche di non-union bargaining, spesso supportate da interventi legislativi che favoriscono negoziazioni a livello d’impresa.

 

Nel merito, Antonio Cocozza, docente di Sociologia delle organizzazioni all’Università Roma Tre, sostiene che «affinché la contrattazione collettiva riesca a governare l’incertezza, dovrebbe muoversi in tre direzioni»: risulterebbe opportuno, innanzitutto, creare una maggiore interazione tra relazioni industriali e HR management, riconoscendo un cambiamento alla base del processo produttivo, ora incentrato sulle competenze individuali dei nuovi lavoratori, i cosiddetti “knowledge workers”. Necessario, inoltre, affiancare alle politiche che generano flessibilità un effettivo sistema di security, attraverso il quale si possano rafforzare i diritti dei lavoratori. Ultimo, ma non meno importante, un investimento sul dialogo sociale a livello europeo, da considerarsi essenziale in termini di adeguamento agli standard internazionali di tutela dei lavoratori e di azione globale. Uno svuotamento dei contenuti dei CCNL a favore del livello aziendale, dunque, secondo Cocozza, non può rappresentare la soluzione; al contrario, la strada migliore da percorrere è quella di rafforzare il coordinamento tra i livelli di contrattazione.

 

Il punto di vista di Fausta Guarriello, giuslavorista e docente presso l’Università degli Studi di Chieti e Pescara “G. D’annunzio”, evidenzia come sul graduale spostamento del baricentro nei sistemi negoziali abbia inciso fortemente una condotta di supporto da parte dei governi nazionali. La Guarriello identifica come problematica non solo il maggior ricorso alla contrattazione decentrata, quanto l’effettiva capacità, in Paesi con un tessuto produttivo perlopiù costituito di piccole o piccolissime imprese come l’Italia, di attuare una reale contrattazione aziendale, che non si riduca a un mero esercizio di potere manageriale e in un ritorno all’unilateralità dell’azione del datore di lavoro.

 

Di tipo qualitativo risulta essere, invece, il problema alla base della contrattazione collettiva oggi secondo Salvo Leonardi, Associazione Bruno Trentin, che, con una vivace difesa delle istituzioni delle relazioni industriali accompagnata da un’ accusa severa verso la governance economica europea, evidenzia la lenta erosione del potere negoziale del sindacato e la scarsa esigibilità di un sistema ormai basato quasi interamente sul volontarismo assoluto.

«Se la contrattazione, ridotta all’osso, non è altro che il tentativo di ridistribuire la ricchezza prodotta, come si può non vedere nella crisi economica l’elemento fondamentale che ha fatto precipitare la situazione?». Questo il punto di partenza dell’intervento di Franco Martini, Segretario confederale CGIL, che mette inoltre l’accento sul capovolgimento, a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, del rapporto tra il sindacato e il quadro istituzionale: se prima era la spinta negoziale delle parti che contribuiva alla legiferazione in materia di lavoro e relazioni industriali, oggi politica e istituzioni intervengono a gamba tesa nelle dinamiche delle parti sociali. Il dibattito sul futuro del sindacato, secondo il Segretario, altro non è quindi che un dibattito su quale concezione democratica abbiamo in mente. Un’opportunità da cogliere, nel merito, è costituita dal Testo unico sulla rappresentanza, che può offrire una prospettiva di reale innovazione del sindacato e dei rapporti con le parti sociali.

 

La discussione sul modello contrattuale non può prescindere, dunque, da una riflessione sulle dinamiche macroeconomiche in atto negli ultimi anni. Traducendo il parere di Claudio Pellegrini, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università di Roma La Sapienza, se la contrattazione collettiva non è riuscita a realizzare gli obiettivi prefissati è perché non applica uno sforzo di compatibilità con il sistema economico, restando immobile di fronte agli andamenti del mercato. Risultano, quindi, due fenomeni di mismatch della contrattazione: innanzitutto, allo sviluppo del mercato non è corrisposta un’estensione dell’attività contrattuale. Sul fronte del wage bargaining, ad esempio, si è preferito rispettare la logica del taking wages out of competition, ossia di considerare i salari come un elemento avulso dall’evoluzione dei mercati. In secondo luogo, la sponda politica in Europa ha portato a una centralizzazione delle politiche sul lavoro, riducendo la possibilità per i sindacati di agire liberamente per mezzo della contrattazione di livello settoriale.

 

Tirando le fila, Mimmo Carrieri, professore ordinario di Sociologia economica e del lavoro alla prima Università di Roma, sottolinea come, in definitiva, dal dibattito si evinca un successo del sindacato nei Paesi emergenti, controbilanciato da un lento declino del ruolo sindacale in quelli avanzati. Forse, afferma, è il momento di ridimensionare la nostra ottica “occidentocentrica”. Il sindacato deve tornare ad avere quel tradizionale ruolo di combattente per le cause sociali e può farlo attraverso la contrattazione solo a patto di cambiarne modalità e contenuti. L’aumento del ricorso alla contrattazione aziendale rappresenta l’incapacità di un Paese di essere unito nell’azione, sempre più spezzettato com’è in tante piccole realtà incapaci di mettere a sistema il proprio potenziale a favore della collettività. La contrattazione si legittima se si occupa di beni pubblici, se realizza un tentativo deciso nel ridurre l’“incertezza”. A coadiuvare la contrattazione, le istituzioni, che devono contribuire nel rivedere regole e tutele per i lavoratori, realizzando campagne sociali mirate e tagliando con i paradigmi del passato.

 

Alessandra Pucello

 

Alessandra Tolentino

@A_Tolent

 

ADAPT Junior Research Fellows

 

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