Genere e Lavoro: un binomio ancora complesso e da approfondire

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Bollettino ADAPT 23 aprile 2019, n. 16

 

“Gender and work: why bother?” è stata la domanda chiave che ha guidato il seminario tenuto dalla professoressa Ania Zbyszewska il 12 aprile presso l’Università degli Studi di Bergamo nell’ambito della Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro. Durante il seminario, con un approccio critico, sono state esaminate le sostanziali differenze esistenti nel mercato del lavoro che determinano un ampio divario di genere: gender pay gap, difficile conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, gestione del lavoro domestico e di cura ancora maggiormente relegato alle donne e il tema del sex work. Approfittando del dibattito avvenuto in occasione del seminario, seguono alcune riflessioni sull’argomento e sulle differenti implicazioni che alcune dinamiche determinano.

 

Anzitutto è utile chiarire sin da subito cosa si intende con il concetto di genere, poiché è un termine ombrello che racchiude al suo interno una pluralità di significati e per distinguerlo nettamente dalla categoria sesso con la quale è quotidianamente e costantemente confuso. Il genere è definito in Sociologia e ormai da molte altre discipline accademiche come la costruzione sociale dell’appartenenza sessuale. Donne e uomini non si nasce ma lo si diventa attraverso un processo nel quale vengono plasmati e acquisiti modelli di comportamento socialmente attesi che si connetto all’essere donna o uomo in una specifica società. Il genere è dunque un concetto che viene appreso sin dalla prima infanzia, poiché è proprio durante i primi anni di vita che si assimilano i comportamenti consoni al proprio corredo biologico e si impara a costruire la propria identità di genere. Sono la società e la cultura che, attraverso l’azione delle agenzie di socializzazione e delle istituzioni, influenzano e indirizzano la definizione dei ruoli maschili e femminili.

 

Il genere è una variabile che caratterizza una persona e fornisce ad essa una specifica identità che andrà inevitabilmente ad intersecarsi con altre caratteristiche e appartenenze di quella persona: l’età, l’etnia, la posizione sociale, la cultura, il titolo di studio, il luogo di nascita, il paese di provenienza e anche l’occupazione ricoperta o non ricoperta nel mondo del lavoro.

 

Spesso il mercato del lavoro viene analizzato attraverso la lente del genere per comprendere se esistono e sussistono differenti opportunità e possibilità dettate dall’essere uomo o donna. L’esistenza di tali condizioni può essere rilevata sia al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro sia all’interno dello stesso nei contesti produttivi e organizzativi. Da quando la categoria di genere è utilizzata per svolgere indagini di questo tipo sono state registrate delle notevoli differenze tra i generi, sempre a scapito di quello che Simone De Beauvoir (1949) ha definito come il “secondo sesso”, il genere femminile per l’appunto.

 

Uno dei problemi esistenti nel mercato del lavoro, se osservato attraverso la lente del genere, è che le donne, in media, a parità di mansione e di livello, hanno retribuzioni più basse rispetto a quelle degli uomini, confermando di fatto la persistenza, nel ventunesimo secolo, di un gender pay gap. In un recente rapporto “La vita delle donne e degli uomini in Europa” (2018) elaborato da Eurostat e Istat emerge che il divario retributivo di genere è riscontrabile in tutti i paesi europei e che nel 2016 in Italia le donne hanno guadagnato il 5,3% in meno degli uomini, a parità di retribuzione lorda oraria media.

 

Da numerose analisi, tra cui lo studio realizzato dalla Worklife Law, University of Chicago e UNC emerge che l’organizzazione degli orari di lavoro è ancora prettamente maschile e incide fortemente sulle dinamiche di conciliazione vita-lavoro. Infatti, numerose lavoratrici operanti in settori a contatto con il cliente hanno dichiarato di trovarsi in difficoltà a causa dello scarso preavviso con il quale vengono comunicati i turni di lavoro (settimanalmente o anche giornalmente).

 

Dunque un altro aspetto strettamente correlato al mondo del lavoro è dettato dai problemi di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro che nella maggior parte dei casi vengono riscontrati dalle donne lavoratrici che faticosamente riescono a ponderare equamente i lavori domestici e di cura con le consuete attività lavorative. Nel rapporto sopracitato (2018) si può leggere che in tutti gli stati europei le donne si occupano maggiormente della cura dei figli e dei lavori domestici rispetto agli uomini e che tale differenza è più netta in alcuni paesi che in altri; per esempio in Italia si registra che l’81% delle donne si occupa delle attività domestiche e della cucina contro il 20% degli uomini, in Grecia l’85% delle donne e il 16% degli uomini, mentre proporzioni meno squilibrate si osservano in Svezia, Danimarca e Lettonia.

Sono comunque le donne che, in tutti i paesi europei considerati dal rapporto, si occupano sia dei lavori domestici sia delle attività assistenziali non retribuite. Questo ulteriore carico di lavoro sommato all’occupazione retribuita riduce per le donne il tempo a disposizione per il riposo, per la cura di sé, per l’apprendimento e altre attività ludiche e creative, ma anche, come sostenuto da Kleven, Landais, Søgaard in Children and gender inequality: evidence from Denmark aumenta l’ampliamento del divario salariale.

 

A fronte di questa situazione le donne reagiscono adottando strategie differenti: c’è chi sceglie di continuare ad essere attiva nel mercato del lavoro retribuito optando però per un regime orario ridotto, altre invece rinunciano momentaneamente al lavoro per occuparsi della cura dei familiari malati o bisognosi di specifiche cure e altre ancora continuano a suddividersi tra le molteplici attività che le vedono coinvolte.

Ciascuna di queste scelte porta comunque con sé delle conseguenze che ricadono inevitabilmente sulla qualità del lavoro e sulla soddisfazione che da esso deriva; ad esempio scegliendo un lavoro part-time le possibilità di raggiungere i vertici aziendali e le posizioni apicali si dimezzano poiché ancora oggi le aziende premiano il presenzialismo.

 

Dal punto di vista della conciliazione è bene ricordare il punto di vista assunto da Zajczyk e Borlini che, in un articolo del 2010 pubblicato in Sociologia del Lavoro, hanno problematizzano la modalità nella quale la conciliazione è sempre stata affrontata e studiata dal punto di vista accademico, poiché tale dinamica è stata definita come un problema delle donne nella gestione delle faccende domestiche e del lavoro retribuito e mai come una questione legata al nucleo familiare e alla gestione intra-familiare del lavoro di cura e domestico. In questa prospettiva gli strumenti elaborati sono tutti mirati e pensati per le donne dimenticandosi che la qualità della conciliazione dipende direttamente dal grado di collaborazione e coinvolgimento del partner.

 

Altra questione fondamentale da considerare quando si parla di conciliazione e di lavoro domestico non retribuito è quella sollevata dalla professoressa Ania Zbyszewska e da altre femministe secondo le quali al lavoro domestico e di cura non è retribuito dovrebbe essere riconosciuto un valore sociale ed economico poiché senza questo tipo di azioni tutte le attività produttive in capo alla società probabilmente non avverrebbero con la facilità e la ritmicità con cui avvengono oggi. Molti studiosi per esempio hanno sottolineato la necessità di inserire tutte queste attività nel conteggio del PIL poiché rappresentano una fonte di ricchezza per un paese.

 

Stefania Negri

ADAPT Junior Fellow

@StefaniaNegri6 

 

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