Fisco: governo, partiti, parti sociali e quel metodo senza identità

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Bollettino ADAPT 6 dicembre 2021, n. 43
 
Ogni anno le settimane che precedono l’approvazione della legge di bilancio sono occasione per provare a trarre conclusioni rispetto al metodo scelto dal governo di turno per gestire le sue relazioni con le parti sociali. Sul banco di prova delle risorse economiche si sono consumati passaggi che probabilmente passeranno alla storia delle relazioni industriali trilaterali, come la controversa diretta Facebook dell’incontro a porte chiuse con l’esecutivo trasmessa dalla Uil nel novembre 2020 per protestare contro la precoce diffusione dei contenuti della manovra, o l’anatema lanciato da Matteo Renzi nel 2014, quando impostando la dimensione finanziaria del Jobs Act aveva avuto a sentenziare in diretta TV che se i sindacati non fossero stati d’accordo il governo se ne sarebbe “fatto una ragione”. CGIL e UIL proclamarono poi lo sciopero generale come “risposta alle politiche fallimentari del Governo”.
 
D’altronde poter rivendicare di avere avuto una voce in capitolo nella destinazione delle risorse finanziare costituisce agli occhi dei propri stakeholder il non plus ultra delle dimostrazioni di efficacia dell’azione di rappresentanza. Va da sé dunque che su questo tavolo gli attori in gioco tendano ad andare all in anche con le fiches del potere comunicativo.
 
Osservare modi e tempi del confronto tra governo e parti sociali in materia economica è poi tanto più interessante oggi visto l’anno trascorso all’insegna di continui e generalizzati auspici per la realizzazione di un patto sociale, variamente denominato; magari per recuperare lo smalto della lunga stagione della concertazione o addirittura per sviluppare una nuova forma di democrazia “negoziale”, o ancora per assicurarsi che quantomeno  venga seguito il principio consultativo del dialogo sociale europeo.
 
Quanto avvenuto nel corso delle ultime due settimane nei confronti che porteranno agli emendamenti governativi alla legge di bilancio, ora al Senato, non permette però di giungere a facili conclusioni. Anzi ad un tratto è parso di poter dire che nulla quanto auspicato nei mesi scorsi si stesse verificando, e che il governo avesse anzi scelto di mantenere una condotta meramente informativa, fatta di garanzie formali di coinvolgimento e totale autonomia nelle scelte sostanziali.
 
Ricapitoliamo. Il 17 novembre scorso il presidente del Consiglio Mario Draghi annuncia che intende avviare un tavolo con i sindacati anche sulla riforma fiscale, sulla quale si sta nel frattempo tentando di comporre un accordo politico che accontenti tutte le forze dell’eterogenea maggioranza. L’aspetto curioso di questa scelta è nella sua gratuità: lo stesso segretario della CGIL Maurizio Landini afferma che si tratta di un coinvolgimento non scontato. Certo, una promessa di tavolo era già arrivata, ma riguardava la riforma delle pensioni, non per il 2022, ma per il 2023. Perché sul fronte previdenziale i giochi sono fatti: i sindacati sono riusciti ad ottenere sostanzialmente solo la proroga a requisiti invariati di Opzione Donna (una misura che, a ben vedere, nel medio periodo conviene anche allo Stato visto che chi vi fa ricorso accede alla pensione con metodo contributivo, evitando all’erario esborsi ulteriori rispetto al corrispettivo dei contributi versati e rivalutati).
 
La proposta del governo che mette d’accordo tutti i partiti filtra però sui quotidiani nazionali il 24 novembre e con ancora più dettagli due giorni dopo, il 26 novembre, quando viene presentata come un accordo fatto. Ciò avviene cioè ancora prima che sia giunta la prima convocazione promessa ai sindacati. I segretari generali confederali a questo punto reclamano l’incontro.
 
La convocazione arriva il giorno dopo, 27 novembre, per lunedì 29. Nel frattempo Cgil, Cisl e Uil non stanno a guardare e anticipano critiche nel merito oltre che sul metodo: benché 7 degli 8 miliardi in gioco siano destinati alla rimodulazione dell’Irpef, per la triplice tutti gli 8 miliardi a disposizione devono essere destinati ai lavoratori dipendenti e pensionati.
 
Le associazioni datoriali hanno nel merito più evidenti motivi per essere deluse: alle imprese paiono non andare nemmeno le briciole: il solo miliardo destinato alla riduzione dell’IRAP riguarda solo ditte individuali, lavoratori autonomi, startup innovative. Confindustria, Confesercenti, Federdistribuzione, Alleanza delle Cooperative comunicano di ritenere necessario invece un taglio della parte contributiva del cuneo, non di quella fiscale. Confindustria in particolare chiede che vengano impiegati 13 miliardi anziché 8, un messaggio che, visto che la partita sullo stanziamento complessivo è chiusa da tempo, è da interpretare come una critica radicale rispetto all’impostazione della manovra.
 
Le confederazioni delle imprese scompaiono però dai radar del dibattito. Il 30 novembre invece, la rassegna stampa è a senso unico: l’ira dei sindacati buca facilmente la soglia della notiziabilità. L’ incontro del giorno prima non si è svolto con Mario Draghi, ma con il Ministro delle finanze Daniele Franco, che, stando a quanto riferiscono i leader della triplice, non mostra “nemmeno delle tabelle” e chiude alle possibilità di modificare l’equilibrio trovato in cabina di regia con i partiti. Un incontro anche meno che informativo insomma: al più notificatorio.
 
Non è forse questa l’intenzione del governo se si dà retta a quanto specificato poi da una nota del ministero in cui si legge che Franco avrebbe offerto un tavolo tecnico per approfondire tutti i dettagli. Ma ai sindacati non basta un’informativa di dettaglio, spiega il segretario della Cisl Luigi Sbarra: «Noi chiediamo un tavolo politico[…] Il governo deve ragionare col sindacato sulla necessità di dare un forte segnale di riduzione delle tasse su lavoro e pensioni». La critica va infatti anche nel merito della rimodulazione delle aliquote Irpef: gli effetti saranno pochi o nulli nelle fasce di reddito dove si concentrano più giovani e più pensionati (ossia sotto i 28.000 EUR di reddito).
 
Dopo l’incontro col governo i sindacati sono a questo punto “sul piede di guerra”, come titola un quotidiano non facile alle metafore belliche come Avvenire. Si dissotterra addirittura lo sciopero generale, riaprendo quelle tensioni prima superate sul fronte delle pensioni. Si ripropongono infatti le divisoni tra i metalmeccanici con le critiche esplicite della Fim-Cisl alla “fuga in avanti” della Fiom-Cgil che già due settimane prima aveva dichiarato in autonomia otto ore di sciopero. Questa volta però anche la Uilm guidata da Rocco Palombella decide di seguire la Fiom annunciando 8 ore di sciopero in Emilia-Romagna.
 
Viene a quel questo punto da chiedersi che senso abbia avuto offrire coinvolgimento alle organizzazioni dei lavoratori se poi questo nei fatti si è risolto in una informativa più scarna di decine e decine di pagine di quotidiani nazionali pubblicate il giorno prima. E la tentazione è quella di concludere che il governo abbia rivelato la sua impostazione formalista, fatta di rispettose quanto ininfluenti convocazioni. Per altro col risultato di marginalizzare il sindacato. Meglio forse mettere d’accordo tutti i partiti e scontentare tutte le parti sociali, troppo distanti tra loro sulla materia (e incapaci di costruire il tanto sbandierato Patto sociale)?.
 
La spiegazione però non regge: un’asimmetria esiste comunque giacché, come detto, le organizzazioni datoriali non sono nemmeno state audite in questa fase. E si fa valida anche l’ipotesi di un errore di calcolo da parte del governo: se le anticipazioni sui contenuti dell’accordo politico fossero seguite al primo incontro con la triplice, si sarebbe probabilmente arginato lo scontento dei sindacati facendo notare loro quanto la destinazione di 7 miliardi su 8 alle tasse sul lavoro delle persone fosse vicina alla loro richiesta di utilizzare tutte le risorse per lavoratori e pensionati.
 
Questa ipotesi si consolida il 2 dicembre, perché Mario Draghi si fa carico di ricucire lo strappo creatosi riconvocando a Palazzo Chigi Cgil, Cisl e Uil. Un incontro nel quale non si limita a partecipare con tabelle alla mano (mossa ormai insufficiente a fare rientrare lo stato di agitazione), ma avanza loro due proposte, entrambe anticipate dalla stampa nazionale il giorno prima: un intervento di taglio dei contributi per i lavoratori a basso reddito e l’apertura ufficiale del tavolo sulle pensioni. Questa volta poi il prossimo appuntamento è fissato per poche ore dopo, per via telefonica.
 
Non si tratta di un’apertura di comodo e senza conseguenze, perché da un lato le risorse servono 1,5 miliardi e questo significa ridurre le risorse rimanenti per intervenire sul caro-bollette, molto importanti per quasi tutti i partiti. Inoltre la scelta sarebbe quella di intervenire solo sui contributi dei lavoratori, non su quelli pagati dalle imprese, scontentando definitivamente quella Confindustria che poche settimane prima aveva avuto a lodare platealmente il Mario Draghi “uomo della necessità” e che oggi sembra essere priva di un potere sia negoziale, sia comunicativo.
 
La concitazione delle giornate è insomma grande e se proprio una conclusione può essere tratta, questa riguarda il fatto che un’impostazione stabile e chiaramente riconducibile ad una delle note categorie del metodo negoziale non pare essere propria di questo Governo. E nemmeno si può dire che le relazioni tra governo e parti sociali vivano di mera informatività se da un lato (con i sindacati) vanno oltre e dall’altro (con le associazioni datoriali) addirittura a tratti non sussistono.
 
Si potrebbe allora forse parlare di un metodo “flessibile” o “adattivo”, dato non tanto dall’orientamento del Governo in carica quanto dalla fisiologica esposizione mediatica delle vicende e dall’importanza della coesione sociale in un periodo di crisi.
Vero è infatti che il Draghi del “Noi comunichiamo quello che facciamo. Non abbiamo fatto ancora niente e non comunichiamo niente” (dal retroscena di Francesco Verderami, sul Corriere della Sera del 14 febbraio) parrebbe aver mantenuto sin qui la sua parola. Siamo oggi ben lontani dall’era Casalino e dalle conferenze stampa-annuncio dei governi precedenti (almeno del Conte II, Conte I, Renzi). Tuttavia la dinamica complessiva del processo comunicativo che accompagna la formazione delle norme assomiglia comunque molto a quella conosciuta durante la prima gestione della pandemia da parte del governo Conte II: da un lato si osserva un cortocircuito mediatico nella puntuale fuoriuscita sui mezzi di comunicazione di notizie relative ai contenuti di trattative svolte a porte chiuse, dall’altro la comunicazione pubblica diventa parte sempre più importante in un processo comunicativo dove le istanze e le proposte vengono gestite anche attraverso i mezzi dell’informazione (quindi in maniera asincrona e a distanza), mentre le sedi istituzionali del confronto in presenza si tramutano in meri rituali in cui si registrano le già note posizioni in campo.
 
A prescindere dalle cause e dalle motivazioni, resta il fatto che queste oscillazioni di metodo contribuiscono ad indebolire ulteriormente il governo, aggiungendosi all’incertezza data dall’assenza del tanto atteso patto con le parti sociali. L’esecutivo si muove infatti sul filo del rasoio in attesa dell’elezione del capo dello Stato, perché se dovesse saltare Draghi, che pare tirare da solo le fila dei rapporti con partiti e parti sociali, allora regnerebbe la confusione: niente percorsi condivisi attraverso un metodo consolidato, ma solo un precario e anomalo equilibrio.
 
Francesco Nespoli

Assegnista di ricerca
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Franznespoli

Fisco: governo, partiti, parti sociali e quel metodo senza identità
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