Giovani, brillanti, ben pagati. Così tremila ricercatori l’anno vanno (e restano) all’estero

Ad abbandonare la nave sono tremila giovani all’anno, dei circa 11mila che conseguono il titolo di dottori. Vanno via soprattutto se le loro discipline di riferimento sono Scienze fisiche (31,5%) Matematica o Informatica (22,4%). Meno mobili i dottori in Scienze giuridiche (7,5%), in Agraria e Veterinaria (8,1%), dice l’Istat. Che ha fatto un identikit del dottore di ricerca che cerca fortuna all’estero, dove ci sono più opportunità e si fanno lavori più qualificati e meglio retribuiti. Proviene per lo più da famiglie del Centro-Nord, con elevato livello di istruzione ed è diventato dottore giovane, prima dei 32 anni. Se si calcola che in Italia l’età media di ingresso (meglio, di stabilizzazione) nella professione è di 37 anni, e che gli scatti retributivi sono rimasti congelati per anni, è facile intuire quanto sia difficile avere gratificazioni in patria.

 

La cooptazione

«Le nostre università assumono con il contagocce e i posti sono riservati a gente che è in lista da anni, tendenzialmente allievi dei professori», dice Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro a Modena. «Una tradizione che nella sua accezione più nobile premia i migliori delle varie Scuole. Ma che ha portato a una forte degenerazione del sistema. In Danimarca, Svezia, Giappone, Stati Uniti, non si premia la fedeltà dell’allievo, ma c’è un’effettiva competizione meritocratica».

 

Ricerca privata

Con l’associazione Adapt, fondata da Marco Biagi, Tiraboschi ha lavorato a una proposta di legge per creare un mercato della ricerca privato, per dare riconoscimento ufficiale ai ricercatori nelle aziende: «Ci allineerebbe alla tendenza europea e consentirebbe di far fronte alle esigenze di crescita e sviluppo del Paese». E invece le piccole e medie imprese italiane a gestione familiare, specializzate in settori a medio-basso contenuto tecnologico, sono poco propense a investire in ricerca e sviluppo e in capitale umano…

 

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