E. Massagli: «Jobs Act, ecco come Renzi e Sacconi hanno aggirato l’articolo 18»

Maurizio Sacconi esulta, Pietro Ichino gongola, Cesare Damiano borbotta, Susanna Camusso minaccia scioperi. Sono le principali reazioni all’emendamento del governo al disegno di legge di riforma del lavoro, detto anche Jobs Act. Per capirne di più, ecco una conversazione di approfondimento con Emmanuele Massagli, presidente del think tank Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Massagli è stato coordinatore della segreteria tecnica del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. 
 
Ci spiega che cosa prevede l’emendamento al Jobs Act?
 
L’articolo 4 delega il governo a riordinare le forme contrattuali e l’attività ispettiva. E’ un articolo denso, il più importante del Jobs Act insieme a quello che traccia le linee della riforma degli ammortizzatori. Nel testo di legge è previsto che vengano adottati decreti legislativi per introdurre nel nostro ordinamento il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio” per le nuove assunzioni (senza adattare a questa disciplina i rapporti già in essere). Come dimostra il dibattito di questi giorni, una novità non di poco conto.
 
E’ l’unica novità?
 
No, nello stesso articolo infatti si apre la porta alla revisione della disciplina delle mansioni (anche regolando eventuali demansionamenti), al superamento dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori sui controlli a distanza, al salario minimo, all’ampliamento dei mini jobs all’italiana (ovvero il lavoro accessorio) e alla riorganizzazione dell’attività ispettiva in una Agenzia Unica (MLPS, Inps, Inail, ASL, Arpa). Non sono argomenti accattivanti come l’articolo 18, ma forse ben più incidenti nel diritto del lavoro reale.
 
Restiamo sull’articolo 18: sarà cancellato o bisognerà aspettare i decreti delegati del governo per capirlo?
 
Si tratta di una delega, quindi di principi e criteri direttivi che diventeranno regolazione reale solo dopo l’approvazione, entro sei mesi dall’approvazione della stessa legge delega, dei decreti legislativi delegati. Ad ogni modo, l’articolo 18 risulta aggirato, non cancellato (rimane tale e quale per tutti i rapporti a tempo indeterminato in essere).
 
Quindi sarà superata o no la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa a favore di un indennizzo monetario?
 
I nuovi assunti a tempo indeterminato non godranno della reintegra in caso di licenziamento, ma delle c.d. tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, ovvero un indennizzo economico proporzionale agli anni di dipendenza dall’impresa: più è alta l’anzianità aziendale, più alta sarà la tutela economica.
 
Ma in cosa si differenzia il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, previsto nel l’emendamento al disegno di legge, rispetto al contratto di inserimento proposto da una larga parte del Pd a partire dall’ex ministro Cesare Damiano?
 
Il contratto a tutele crescenti supera del tutto la possibilità di reintegra, sostituita per sempre dalla tutela crescente. Nel contratto di inserimento proposto da Damiano, invece, dopo un periodo di prova lunga (uno, due, anche tre anni) senza possibilità di reintegra (ma con la tutela economica), interviene la disciplina attuale, comprensiva di articolo 18. Quindi, no articolo 18 all’inizio; disciplina tradizionale dopo l’inserimento.
 
Come si concilia il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con la semplificazione dei contratti a tempo determinato prevista dal decreto Poletti? Ovvero: che fine faranno i contratti cosiddetti flessibili con la previsione che per i nuovi assunti si farà riferimento al contratto delineato dal Jobs Act?
 
La “liberalizzazione” del contratto a tempo determinato contenuta nel dl 34/2014 (il decreto Poletti) è l’anticamera del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e, di fatto, la realizzazione del contratto di inserimento. Ora un’impresa può assumere per tre anni un lavoratore senza vincoli di stabilizzazione (nei limiti imposti dalla legge); dopo questo periodo, se vuole continuare la collaborazione, è obbligato ad assumerlo. Non è una fattispecie residuale: sono così attivati il 70% dei nuovi rapporti di lavoro in Italia. Mente si filosofeggiava sull’articolo 18, l’articolo 18 è già saltato.
 
Ma i veri obiettivi della delega quali sono?
 
L’intenzione evidente della delega è quella di sfoltire le forme contrattuali flessibili e ridurre il peso percentuale del contratto a tempo determinato immaginando che gli imprenditori non avranno remore ad attivare rapporti con nuovo contratto a tempo indeterminato. Per questo si prevede esplicitamente di “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali”.
 
E l’apprendistato che fine farà?
 
L’apprendistato ha già fatto una brutta fine. L’incentivazione economica dello stage prima (Governo Letta) e la liberalizzazione del tempo determinato poi (Governo Renzi) hanno “massacrato” l’apprendistato professionalizzante, già molto provato dalla crisi. D’altra parte il professionalizzante, l’unica forma di apprendistato diffusa in Italia, non è vero apprendistato, come inteso in Europa, ma una forma di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro incentivata fiscalmente. Se è da tutti ormai inteso così, tanto vale che si estingua, a patto di scommettere davvero sulle altre due forme di apprendistato, quella per i minorenni a scuola e quella per l’alta formazione e ricerca, che non sono (e non potranno essere) sostituibili da alcuna forma contrattuale tradizionale.
 
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