Donne e lavoro, troppo facile parlare di annus horribilis

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Bollettino ADAPT 8 marzo 2021, n. 9

 

Quando si affronta il tema dell’occupazione femminile in Italia e delle conseguenze economiche della pandemia spesso la narrazione è quella di un annus horribilis. E i dati che abbiamo oggi a disposizione difficilmente possono smentire questa definizione se è vero, come certifica Istat, che tra febbraio e dicembre 2020 il numero di occupate è diminuito di 268 mila unità e il tasso di occupazione è sceso dal già bassissimo 49,8% al 48,6%. A questo si aggiunge l’enorme aumento del numero di donne inattive (che quindi non lavorano e non cercano lavoro), passate da 8,49 milioni a 8,764 milioni, con una crescita di 274 mila unità. Quasi ci fosse stato un travaso diretto tra la perdita di occupazione e l’aumento di inattività, dinamica comprensibile nei primi mesi della pandemia, quando i decreti sancivano la chiusura di quasi tutto il sistema produttivo italiano, ma che, letta a distanza di dieci mesi, evidenzia problemi più strutturali. Fin qui i numeri recenti, che di certo dipingono uno scenario cupo, ma che letti in chiave di annus horribilis sembrano sempre contrapporsi ad un presunto annus mirabilis ci cui però si fatica a rintracciare la presenza nel passato. Quello che è emerso infatti con la pandemia è stata infatti la profonda vulnerabilità del lavoro femminile nel nostro Paese, vulnerabilità che si aggiunge ai dati che già collocano l’Italia agli ultimi posti per numero di donne occupate. Il paradosso che si è svelato è stato quello di donne che erano allo stesso tempo il maggior numero di occupati in settori produttivi considerati essenziali dai vari DPCM della primavera scorsa e il maggior numero di occupati che ha invece perso il lavoro. Istat stima come la quota delle lavoratrici sospese sia del 26,1% (2 milioni e 575 mila), inferiore quindi alla media complessiva e alla percentuale degli uomini che sale al 35,3 con 4 milioni e 756 mila occupati. Dati in linea con le elaborazioni di Banca d’Italia che vedono solo leggermente più alta la percentuale di donne occupate in settori sospesi pari al 27,8%.

 

La risposta è soprattutto nell’elevata quota di donne occupate nei servizi. Servizi che da un lato contengono tutti i lavori essenziali nella sanità, nella grande distribuzione, in alcune delle fasce scolastiche rimaste aperte e, dall’altro, in tutti quei lavori che richiedono invece una prossimità fisica come il settore del retail, dei servizi domestici ecc. Una polarizzazione quindi tra donne che hanno tenuto in piedi il Paese e donne che hanno pagato le conseguenze di lavori senza un sistema adeguato di tutele, caratterizzati da strutturali debolezze che vanno dal part time involontario all’ampissima quota di lavoratrici in nero nell’ambito dei servizi alla persona. Sappiamo infatti che i servizi hanno una quota maggiore di contratti a termine rispetto alla manifattura e proprio i contratti a termine, non soggetti alla tutela del blocco dei licenziamenti, hanno portato, alla loro scadenza, alla perdita del posto di lavoro a causa del mancato rinnovo (complici anche le rigidità del Decreto Dignità). Le difficoltà delle donne nel mercato del lavoro italiano sono quindi strutturali e la pandemia non ha fatto altro che svelare quanto in fondo già si conosceva.

 

Uno degli aspetti centrali emerso è quello delle conseguenze in termini di conciliazione vita-lavoro dei provvedimenti restrittivi che si sono susseguiti mediante i vari DPCM, in particolare quelli relativi alla chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, ma che si ripropongono anche all’inizio di una terza ondata che sta aumentando le chiusure. Le analisi Istat mostrano come siano oltre 3 milioni le occupate con almeno un figlio entro i 14 anni d’età e tra queste 1,3 milioni ha un figlio minore di 6 anni. All’interno di questo panorama il 27% delle occupate con un figlio minore di 14 anni sono occupate in settori considerati da Inail a medio o alto rischio (752 mila) e sono 319 mila quelle occupate in un settore ad alto rischio e che allo stesso tempo hanno un figlio minore di 6 anni. Se prendiamo invece in analisi il numero di occupate nel settore sanitario e di assistenza sociale emerge come su 1,34 milioni di occupate 417 mila abbiano un figlio di età inferiore ai 15 anni (il 31%) e 195 mila un figlio minore di 6 anni (14,5%). Queste cifre fanno intuire come la quota di donne con figli piccoli occupate in settori ancora attivi sia stata particolarmente elevata nei mesi più duri della pandemia. Intuizione confermata da Istat che rileva come «circa un quarto delle donne occupate con almeno un figlio in età 0-14 lavora in settori sospesi (796 mila) mentre il 73,7% (2 milioni 237 mila) risulta occupata in settori rimasti attivi». Rapporto simile se si osservano le donne con figli sotto i 6 anni le quali sono occupate in 951 mila casi in settori attivi e in 353 mila in settori sospesi.

 

Questi i numeri della fase più dura della pandemia ma che sono ben indicativi, anche rispetto alla situazione attuale, della situazione complessa dell’occupazione femminile e che possono aver generato, insieme a quanto già detto sui contratti a termine, un aumento dell’inattività. A tutto questo si è cercato di ovviare con l’introduzione di congedi parentali che però presentano non pochi limiti, primo tra tutti l’impossibilità di utilizzarlo nel caso in cui il genitore stia lavorando da remoto, come se vi fosse piena compatibilità tra la cura di uno o più figli in casa e un lavoro a tempo pieno. È chiaro che non è possibile paragonare la pandemia, che è propriamente una emergenza e quindi una situazione straordinaria, con la normalità, ma il nodo della difficile compatibilità tra lavoro e cura è tra le principali criticità di un sistema di welfare che non ha una copertura di servizi per l’infanzia accettabile e che si fonda ancora su un mercato sommerso per quanto riguarda altri servizi di cura sia sul fronte infanzia che su quello della non-autosufficienza.

 

In ultimo però il nodo è di natura culturale e riguarda la visione del lavoro che vogliamo proporre. Infatti è difficile negare che, in fondo, molti dei lavori svolti da donne non rispecchino quel principio produttivista che oggi guida la valorizzazione economica, ma anche sociale, delle diverse professioni. Il lavoro di cura soprattutto, che occupa milioni di donne, è considerato un lavoro di grado inferiore poiché non produrrebbe un valore aggiunto quantificabile e redistribuibile. E ciò giustificherebbe quindi bassi salari, lavoro nero, instabilità delle ore lavorate, totale discrezionalità (passiva, ovviamente) nell’organizzazione del lavoro. In fondo sembra quasi che si nasconda una idea, impossibile da dire pubblicamente, che questi lavori altro non siano che qualcosa in fondo connaturato alla donna, che estenderebbe anche sul mercato le sue attitudini alla cura della persona, e in quanto semplice estensione può benissimo sfuggire alle normali regole di mercato. Occorre ripartire proprio da qui, da una radicale critica a questa visione sottaciuta e da una nuova valorizzazione del lavoro inteso non solo come attività economica, ma come azione e relazione.

 

Francesco Seghezzi

Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz

 

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