Divieto di licenziamento e gestione condivisa degli esuberi

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Bollettino ADAPT 31 agosto 2020, n. 31

 

Con l’entrata in vigore del c.d. “decreto agosto”, il blocco granitico di operare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, siano essi individuali o collettivi, subisce un ulteriore scanalatura rispetto a quanto già avvenuto (es. cambi d’appalto) in occasione dei precedenti decreti e relative leggi di conversione.

 

L’art. 14 del decreto-legge n. 104/2020 introduce infatti una serie di deroghe alla moratoria: per le aziende che abbiano terminato gli specifici ammortizzatori Covid (oggi normati all’art. 1 del decreto) o abbiano optato, in alternativa, per l’esonero contributivo ai sensi dell’art. 3 del medesimo decreto; in caso di cessazione definitiva dell’attività d’impresa, con messa in liquidazione senza continuazione della stessa, anche parziale, salvo il caso di configurabilità dell’ipotesi di trasferimento d’azienda (o di ramo d’azienda); per l’ipotesi di fallimento in cui non sia previsto l’esercizio provvisorio.

 

Lo spunto più interessante ci pare però essere l’ipotesi di accordo collettivo aziendale di incentivazione alla risoluzione del rapporto di lavoro in essere. L’intesa – per espressa previsione di legge – deve essere siglata con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, con ciò richiamando (almeno in parte) la nozione qualificata di contratto collettivo introdotta in origine dall’art. 51 decreto legislativo n. 81/2015 e che è stata via via assunta quale metro di riferimento anche dalle successive e diverse discipline lavoristiche. Rispetto all’articolo qui richiamato, pare essere esclusa la possibilità di accordo siglato unicamente con le rappresentanze sindacali unitarie (RSU) – o rappresentanze sindacali aziendali (RSA) per i settori non coperti dalla normativa interconfederale – costituite in azienda e riferibili alle stesse organizzazioni sindacali.

 

Tecnicamente non si tratta, a ben vedere, di una ipotesi di licenziamento, trattandosi invece di risoluzione consensuale, cui il lavoratore è libero o meno di aderire. Il decreto si preoccupa, di conseguenza, di assicurare ai lavoratori coinvolti, il trattamento di disoccupazione (Naspi) che normalmente è invece previsto per le sole ipotesi di licenziamento (o per altre ipotesi residuali, come le dimissioni per giusta causa o la risoluzione consensuale a valle della c.d. procedura Fornero), ai sensi dell’art. 1 decreto legislativo n. 22/2015.

 

A fronte della qualificazione giuridica della fattispecie, è chiaro come per la stessa non trovi applicazione la disciplina in materia di licenziamenti collettivi (legge n. 223/1991), la quale prevede l’attivazione di una specifica procedura sindacale in caso di recesso per giustificato motivo oggettivo (esuberi) di un numero superiore a 4 lavoratori nella medesima unità produttiva o in più unità della stessa provincia nell’arco di 120 giorni. Si ritiene dunque possibile il raggiungimento dell’intesa di cui all’art. 14 co. 3 decreto-legge n. 104/2020 anche per un numero inferiore di soggetti. È pur vero che dovrà risultare un esubero avente natura strutturale, anche per singole articolazioni dell’azienda (reparti/uffici/divisioni…), a cui la stessa in questa fase propone di far fronte tramite questa via. Pare dunque ragionevole, ai fini di maggior certezza di legittimità dell’operazione, la dichiarazione di almeno n. 2 posizioni di esubero. Ciò non toglie che, all’esito del confronto coi singoli dipendenti, non possa risultare un numero inferiore di adesioni rispetto a quanto originariamente dichiarato in sede collettiva (in ipotesi anche la firma di un solo accordo individuale), senza che ciò infici l’intera operazione.

 

Non è infine esplicitato il termine ultimo di percorribilità di questa soluzione, quantomeno per la stipula degli accordi collettivi. Da una lettura sistematica è comunque sostenibile la riconducibilità di tale termine alla cessazione del divieto di licenziamento per singola azienda, che ha natura “mobile”, essendo relativo al termine di fruizione degli ammortizzatori sociali (a quel punto l’azienda potrà procedere con gli strumenti ordinari), e al limite al 31 dicembre 2020. Resta invece comunque possibile prevedere in sede collettiva un diverso termine ultimo di effettiva cessazione dei singoli rapporti di lavoro, anche di mesi successivo, pur non essendo in punta di diritto dovuto il preavviso di licenziamento, sempre in conseguenza della premessa di qualificazione tecnica della fattispecie risolutoria.

 

Lo strumento introdotto per necessità contingente assume un particolare ruolo di gestione condivisa degli esuberi che consente di ridurre l’impatto socio-economico degli stessi mediante il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali e il possibile accompagnamento delle singole intese con somme erogate a titolo di incentivo all’esodo o a copertura di rinunce e transazioni sulla risoluzione e/o sul pregresso rapporto di lavoro. Si tratta peraltro di soluzioni spesso concordate con le organizzazioni sindacali anche in sede di procedura di licenziamento collettivo ex legge n. 223/1991. La novella non mina, in effetti, la libertà d’impresa e di iniziativa economica in termini strutturali, essendo comunque facoltà dell’impresa valutarne la percorribilità e fissarne i confini d’intervento, rimanendo in alternativa vigenti gli ordinari meccanismi di sospensione, anche con sostegno al reddito, del rapporto di lavoro, in attesa del venir meno del “blocco” e quindi della possibilità di impiegare gli ordinari strumenti di caducazione del rapporto di lavoro.

 

La novella non risolve, in ogni caso, altre ipotesi che rischiano di ingessare il mercato del lavoro e irrigidire i rapporti in essere. Ci riferiamo, in particolare, ad accordi di incentivazione all’esodo raggiungibili sul piano individuale che, raggiunti in “sede protetta” (art. 2113 u.c. c.c.) risultano assistiti dalle medesime garanzie (tutela/assistenza sindacale) dei piani di incentivazione all’esodo sopra descritti. Altra ipotesi residuale è quella dell’intervenuto giudizio di inidoneità totale e permanente alla mansione, con impossibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda, che ad oggi risulta non praticabile, essendo tale ipotesi riconducibile al giustificato motivo oggettivo di licenziamento (in questo senso nota prot. INL n. 298 del 24 giugno 2020), restando la sola alternativa di collocazione in cassa integrazione (che non sembra percorribile se attivata per solo quel dipendente, correndo il rischio di un trattamento discriminatorio) e/o l’utilizzo degli ordinari istituti di legge e contratto collettivo per giustificazione d’assenza quali ferie, permessi per riduzione d’orario/ex festività (RAL/PAR) e financo – ove questi ultimi risultassero già integralmente fruiti – permessi (o aspettative) non retribuiti.

 

Si tratta in ogni caso di un primo passo verso l’allentamento e – in prospettiva – il venir meno della moratoria sui licenziamenti di natura economica, che cerca di sminare i rischi di un possibile giudizio di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 41 Cost. e in certi termini va in contro alle richieste delle imprese, che lamentano un eccessivo irrigidimento della libertà d’imprese.

 

Marco Menegotto

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@MarcoMenegotto

 

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