Di nuovo il boomerang sui contratti a termine

ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

È ormai chiara la volontà del Governo di introdurre per decreto una nuova stretta sui contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. È una tentazione che si ripropone ciclicamente nel dibattito politico, ora come riduzione del limite massimo, ora come (re)introduzione delle causali di ammissibilità per l’apposizione del termine.

 

Come in altre occasioni, quella che manca è una analisi preliminare dei dati non solo statistici, ma anche di contesto, del fenomeno la cui regolazione si intende riformare, nel solco della cattiva abitudine dell’evitare a tutti i costi un reale monitoraggio delle riforme.

 

Dopo il superamento della causalità – decreto Poletti (si veda a riguardo F. Carinci, G. Zilio Grandi, a cura di, La politica del lavoro del Governo Renzi – Atto I, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 30) e decreto legislativo 81/2015 (F. Carinci, a cura di, Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 48) –  si è assistito ad una drastica riduzione delle controversie di lavoro sul tema: tra il 2016 e il 2014 si registra una contrazione del 56,5%, mentre le iscrizioni a ruolo nel primo semestre 2017 (ultimo dato reperito) sono solamente 490 (dati Ministero della Giustizia pubblicati da Il Sole 24 Ore).

 

D’altro canto gli ultimi dati ISTAT confermano il trend della prevalenza dell’ingaggio della forza lavoro con contratti a termine piuttosto che con contratti a tempo indeterminato, per cui ad esempio nel I trimestre 2018 sullo stesso periodo dell’anno precedente si registra un + 60 mila permanenti a tempo pieno (+ 0,5%) contro un + 283 mila a termine tempo pieno (+ 17,8%). E ciò in spregio di quella norma un poco presuntuosa che sin dalla legge 92 del 2012 pretende di stabilire come la forma comune di assunzione debba essere il lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma anche ai pur generosi benefici contributivi delle ultime leggi di stabilità.

 

Nella lettura di dati simili non ci si può però assestare sulla posizione di chi vuole rappresentare il fenomeno come evidenza di una intenzionale precarizzazione del mercato del lavoro, con le imprese che preferiscono assumere a termine piuttosto che a tempo indeterminato per evitare costi indiretti (su tutti, il licenziamento), posto che questi ormai sono assai ridotti e comunque quantificabili con buoni margini di certezza.

 

Invero, è piuttosto evidente – almeno a chi vive il mondo del lavoro – l’esigenza generalizzata di rispondere a richieste del mercato spesso cicliche, altalenanti, imprevedibili e di corto respiro, magari da soddisfare in ridotti lassi temporali. E laddove il portafoglio ordini non consenta una visibilità di (sufficiente) lungo periodo, non è pensabile procedere ad indiscriminate assunzioni a tempo indeterminato o a stabilizzazioni prive di reale necessità.

 

Si tratta di dati di contesto evidenti da tempo e solo amplificati con l’entrata a pieno regime nell’era della manifattura digitale e della sharing on demand economy, dai quali però non si può prescindere, neppure nella regolazione del lavoro.

 

Occorre in ogni caso prestare attenzione a non cadere nell’equivoco della totale libertà delle imprese nell’impiego di forza lavoro per brevi periodi, non fosse altro per il fatto che quando l’azienda opera scelte organizzative (come una assunzione e le sue modalità) lo fa in ragione di obiettive esigenze.

Ad ogni modo la legge fissa alcuni rigidi paletti: massimo 36 mesi, nel corso dei quali possono essere effettuate massimo 5 proroghe a prescindere dal numero dei contratti stipulati (rinnovi), per un limite massimo di contratti a termine pari al 20% rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato, nonché il c.d. diritto di precedenza (purché esercitato dal lavoratore) rispetto alle future assunzioni.

 

Vi è di più. La contrattazione collettiva a livello nazionale spesso introduce ulteriori limiti e per fare qualche esempio: limiti percentuali all’assunzione a termine condivisi con la somministrazione a tempo determinato (CCNL Terziario); diritti alla stabilizzazione in caso di successione di contratti a termine e impiego nella medesima azienda tramite agenzia (CCNL Gomma-Plastica, dopo 44 mesi anche frazionati).

 

D’altro canto non mancano anche accordi integrativi siglati in sede aziendale in materia di flessibilità non solo organizzativa (tempi e mansioni) ma anche assunzionale. Ad esempio, laddove l’impresa dichiari comprovate esigenze di incremento temporaneo della forza lavoro (ad esempio per commesse o appalti limitati nel tempo), il sindacato (anche il più ostile) concede l’innalzamento della percentuale massima di assunzioni (dal 20 % fino anche, in qualche caso, al 30% o 40%) a fronte di benefici non solo in termini economici.

 

È frequente infatti la creazione di “bacini” o “liste” di lavoratori già assunti a tempo determinato da cui l’azienda, in caso di esigenze di assunzioni a tempo indeterminato, si impegna ad attingere, con ciò introducendo un più ampio ed automatico diritto di precedenza, e salvaguardando gli investimenti già compiuti in formazione, addestramento e professionalità.

 

Per queste ragioni sembra del tutto anacronistico, almeno a parere di chi scrive, tornare a discutere dell’introduzione per legge di causali all’apposizione del termine ai contratti di lavoro, che per loro natura dovrebbero essere clausole generali e perciò dal contenuto evanescente e in questo caso sì foriere di strumentalizzazioni ed abusi (come dimostra la giurisprudenza). Anacronistico in quanto, diversamente dal contesto economico, sociale e ordinamentale pre-esistente, risulta oggi di fatto relegata a poche ipotesi la tutela reale di cui all’art. 18 St. Lav., al quale facevano da contraltare le causali per il tempo determinato.

 

Anche l’ipotesi di ridurre la durata massima o il numero di proroghe o rinnovi possibili pare non essere la strada migliore: il rischio è quello di aumentare il turn over tra lavoratori con percorsi individuali ancora più brevi.

 

Si tratta, in ultima battuta, di capire se è la realtà economica e produttiva che deve adattarsi a regole spesso immaginate per un ambiente astratto oppure se debba essere il diritto (del lavoro) a dover comprendere prima, ed agevolare poi, le (nuove) modalità di lavoro e di organizzazione della produzione, fornendo una cornice ampia di tutele entro cui le parti sociali possano disegnare regole utili alle diverse realtà, nel rispetto del sano principio della sussidiarietà. Con ciò mitigando particolari effetti delle nuove esigenze produttive, su tutti la più marcata discontinuità della carriera e l’incidenza di questa sulla vita delle persone.

 

La seconda via è di gran lunga quella preferibile.

 

Marco Menegotto

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@MarcoMenegotto

 

Scarica il PDF 

 

Di nuovo il boomerang sui contratti a termine
Tagged on: