Di cosa parliamo quando parliamo di produttività?

Un nodo della grande trasformazione del lavoro che ancora fatica ad essere compreso nel nostro Paese è quello legato alla produttività. Tutti ne parlano ma non sempre dando al concetto il giusto valore e significato e non a caso la produttività in Italia non cresce da 15 anni mentre restano tabù temi oramai ineludibili come il lavoro di ricerca in azienda e il raccordo università-impresa inteso anche come un modo nuovo di fare l’una e l’altra. In questa direzione ci aiuta un prezioso e ancora attuale contributo di Luciano Gallino ([1]) che unisce diversi punti dell’impegno investigativo di ADAPT sulla produttività del lavoro.

Gallino rileva che l’Italia è fanalino di coda nelle statistiche Ocse sulla produttività del lavoro. È noto infatti che nel nostro Paese questo indicatore è pressoché piatto dal 1995 ([2]). L’Autore precisa che l’Ocse usa correttamente il concetto di produttività, in quanto lo intende come valore aggiunto per ora lavorata. Per contro, «i media, i manager, molti imprenditori e quasi tutti i politici, intendono la produttività come quantità di pezzi sfornati all’ora da un operaio, restando con ciò aderenti ad un’immagine della produttività resa celebre dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin». Produrre un elevato valore aggiunto per ora di lavoro, prosegue l’Autore, «non deriva affatto dal lavorare più in fretta, e ben poco dal lavorare meglio nel senso di non sprecare tempo, non fare pause, compiere solo i movimenti prestabiliti e simili. La quantità di valore aggiunto per ora lavorata deriva in massima parte dal tipo di prodotto che un’impresa sa inventare o sviluppare; dai mezzi di produzione che si utilizzano; dalla strutturazione complessiva dei processi di fabbricazione; infine dall’organizzazione del lavoro. In altre parole, è strettamente legata all’entità degli investimenti in ricerca e sviluppo, sia nel pubblico che nel privato».

 

La voce R&D vede l’Italia quasi ultima in classifica tra i maggiori paesi Ue. Spendiamo in questo tipo di investimenti circa l’1,36% del Pil, laddove quasi tutti gli altri paesi Ocse vi destinano tra il doppio e il triplo. Le imprese private italiane, ricorda ancora Gallino, «hanno smantellato o ridotto drasticamente l’attività dei loro centri di ricerca, mentre la ricerca pubblica soffre, oltre che di gravi carenze organizzative, anche di continui tagli di fondi. Il risultato tangibile e duraturo che si è ottenuto è un valore aggiunto insolitamente basso per ora lavorata».

Occorre certo precisare che non vi è una diretta correlazione tra investimenti generalizzati in R&D e aumento della produttività. Quest’ultima è più strettamente connessa e stimolata dagli investimenti in ricerca applicata e sviluppo industriale e con essi dalla capacità delle imprese di commercializzare i risultati della ricerca collocandone gli output sul mercato. Il piano Industria 4.0 del Ministro Calenda va nella direzione di imporre al settore privato la condivisione con il pubblico dei rischi e delle opportunità legate agli investimenti di lungo termine in ricerca attraverso lo stanziamento di un ampio ventaglio di crediti di imposta a favore delle attività di R&D ([3]), nella speranza che gli stimoli indiretti liberino investimenti da parte del settore privato che allo stato si attestano intorno allo 0,76%.

Alle evidenti criticità registrate nel settore privato si sommano peraltro quelle del pubblico che, a causa del sottodimensionamento degli investimenti spesso allocati attraverso meccanismi poco trasparenti, contribuiscono a restituire un panorama della ricerca italiana articolato in interventi «poco efficaci perché male coordinati e frammentati in diversi livelli di competenza istituzionale tra centro e periferia. È del resto lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico a parlare espressamente di difficile accessibilità ai finanziamenti pubblici per la ricerca anche in ragione della persistente ingerenza degli attori politici nella loro gestione anche a causa di un eccesso di discrezionalità e burocrazia» ([4]).

 

La suggestione di Gallino non può tuttavia deresponsabilizzare totalmente le parti sociali sul tema della produttività del lavoro. Da un lato perché la contrattazione collettiva va comunque annoverata tra i driver della produttività in quanto incide sull’organizzazione del lavoro. I rapporti ADAPT sulla contrattazione collettiva mostrano come alcuni schemi orari e retributivi siano effettivamente funzionali a una migliore produttività e qualità del lavoro ([5]). Dall’altro, l’evidenza empirica mostra come l’attuale assetto della contrattazione collettiva abbia creato un malsano regime di “profitto garantito” abbattendo per gli imprenditori gli incentivi ad accrescere la produttività attraverso investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo: il mix tra politica salariale orientata al contenimento del costo del lavoro e mancata diffusione della contrattazione decentrata ha consentito alle aziende, anche quelle marginali, di rimanere competitive senza innovare e innovarsi ([6]). Buona parte della sfida sulla produttività, dunque, resta nelle mani delle parti sociali.

 

Paolo Tomassetti

ADAPT Research fellow

@PaoloTomassetti

 

([1]) L. Gallino, La lotta di classe dopo a lotta di classe, Laterza, 2013.

([2]) P. Tomassetti (a cura di), Detassazione 2016: prime analisi sugli effetti del provvedimento, Bollettino Speciale ADAPT, n. 11/2016.

([3]) E. Prodi, M. Tiraboschi, G. Rosolen (a cura di), Il lavoro di ricerca in impresa ai tempi di Industry 4.0: un piccolo contributo progettuale al c.d. “Piano Calenda”, Bollettino Speciale ADAPT, n. 9/2016.

([4]) M. Tiraboschi, L’inquadramento giuridico del lavoro di ricerca in azienda e nel settore privato: problematiche attuali e prospettive future, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2016, 4.

([5]) ADAPT, La contrattazione collettiva in Italia (2016). III Rapporto ADAPT, ADAPT University Press, 2017, Parte monografica.

([6]) L. Tronti, La regola d’oro dei salari e i suoi effetti, in www.sbilanciamoci.it, 1 ottobre 2013.

 

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