Demografia, economia e parti sociali: i tre fattori per prevenire e attenuare gli effetti dei disastri naturali

Proprio nei giorni in cui si discutono le azioni da intraprendere per porre rimedio agli ingenti danni che l’alluvione ha causato al tessuto produttivo della bassa modenese già duramente colpito dal terremoto del 2012 (si legga M. Giovannone e S. Spattini, L’impatto dell’alluvione su lavoratori e imprese, in Bollettino Speciale ADAPT, n. 5/2014), il quotidiano inglese The Guardian porta i riflettori sul caso di un’altra città, lontana dall’Italia ma ugualmente alle prese con il suo processo di ricostruzione.

 

Si tratta della città neozelandese di Christchurch che nel febbraio 2011 veniva colpita da un violento terremoto di magnitudo 6,3 che, oltre a provocare più di 180 morti, causava ingenti danni materiali alle abitazioni già messe a dura prova da un’altra scossa di cinque mesi addietro.

 

Ciò che più colpisce, tuttavia, è lo scenario attuale della città: non sembra essere molto diverso da quello dei giorni successivi al terremoto. Buona parte del centro cittadino è ancora sotto le macerie, le scavatrici ferme, i cantieri aperti.

 

Il caso di Christchurch sembra ulteriormente rafforzare la tesi emersa in letteratura secondo cui ci sono alcuni elementi attraverso i quali è possibile prevedere la capacità di resilienza di un determinato territorio in caso di disastri naturali. Tra questi, il fattore demografico e la dinamicità del tessuto produttivo.

 

I casi di Chicago, danneggiata dal Grande incendio del 1871, e San Francisco, piegata dal terremoto del 1906, dimostrano che grazie al capitale umano e alla dinamicità del tessuto economico e del mercato del lavoro, è possibile ricostruire la città in tempi brevi e farla diventare un polo di attrazione per nuovi abitanti e attività produttive. Al contrario, le città giapponesi di Iwate, Miyagi e Fukushima, già alle prese con un rapido processo di invecchiamento della popolazione e di economia stagnante nel periodo precedente al terremoto del marzo del 2011 (a cui ha fatto seguito uno violento tsunami che a sua volta a generato un disastro nucleare) hanno conosciuto un ulteriore peggioramento proprio a partire da questi eventi naturali (Y. Zhou, How Will the 3.11 Earthquake Transform the Population and Labor Market in Iwate, Miyagi and Fukushima?: Knowledge Gained from Existing Studies of Disasters, in Japan Labor Review, 2012, vol. 9, no. 4).

 

Nel caso specifico di Christchurch nel periodo pre-terremoto la popolazione e l’economia già non registravano trend positivi. Nel 2013 la popolazione ammontava a 341,469 persone, quasi 7.000 unità in meno rispetto al 2006 (Statistics New Zealand census of population and dwellings 2013), con un numero di over 50 in continuo aumento rispetto a quello degli under 24 (Statistics New Zealand, census of population and dwellings 2013), mentre l’economia della regione registrava nel 2010 una crescita economica dello +0.8% rispetto all’anno precedente, ma comunque ben al di sotto di tutti i valori registrati dal 1998 (Regional Economic Activity, febbraio 2011). Condizioni non ottimali per fronteggiare una calamità naturale. E infatti, come nel caso delle città giapponesi, anche la città neozelandese ha vissuto un ulteriore peggioramento dopo il terremoto. Nel bienno successivo, Christchurch ha conosciuto un ulteriore processo di “depopolamento” (più del 2% dei suoi abitanti sono emigrati) oltre che di declino delle attività commerciali.

 

L’inerzia del governo locale ha ulteriormente aggravando la situazione. Negli ultimi tre anni, l’autorità centrale specificatamente creata per la ricostruzione – la Centerbury Earthquake Recovery Activity (Cera) – non è stata in grado di presentare un valido e condiviso progetto di ricostruzione. Ancora oggi non si conosce quale sarà il futuro volto della città. Solo di recente, il nuovo sindaco ha deciso di abbandonare l’approccio “top-down” dando più voce e margine di azione alle organizzazioni delle comunità locali, molte delle quali vorrebbero far rinascere la città in un’ottica più sostenibile e al tempo stesso sicura. Un percorso possibile come dimostrano le esperienze portate a termine a New Orleans, dopo gli uragani Katrine e Rita del 2005, e a Greensburg, dopo il devastante tornado del 2007, raccolte nella guida Rebuilding after Disasters: Going Green from the Ground Up, o anche le esperienze di alcune realtà americane che mostrano come il coinvolgimento della società civile, del dialogo sociale e dei lavoratori possa essere il mezzo più adatto per incrementare la resilienza delle città, cioè la capacità di anticipare e riprendersi dagli effetti dei disastri naturali in tempi previ e secondo modalità efficienti (B. Cleveland “Mobilizing informal workers for urban resilience: linking poverty alleviation and disaster preparedness” in UCLA Research & Policy Brief, ottobre 2013, n. 15).

 

Un esempio in tal senso viene anche dall’Italia. In occasione del terremoto registrato in Umbria tra il 1997 e il 1998, per prevenire i rischi di una ricostruzione affidata a imprese irregolari e non in grado di garantire la ricostruzione nel rispetto delle normative antisismiche, il sistema di relazioni industriali locale inventò il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), strumento di selezione diretta delle imprese ammesse al processo di ricostruzione e anche di tutela indiretta dei lavoratori e dei cittadini del territorio. Il DURC è diventato nel corso degli anni lo strumento principale per contrastare il lavoro nero e irregolare e, successivamente, il volano per il “sistema di qualificazione delle imprese” che consente di ammettere a determinati mercati solo operatori qualificati per competenze tecniche e professionali, rispetto del contratto collettivo, adozione di determinati standard contrattuali in generale e negli appalti in particolare, rispetto delle procedure in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ecc. (si legga Managing and Preventing Natural (and Environmental) Disasters: The Role of Industrial Relations. Some Reflections on the Italian Case a cura di M. Tiraboschi, Working Paper ADAPT, n. 142/2013).

 

Quello che ormai appare evidente è che gli effetti dei disastri naturali non sono del tutto imprevedibili. Anzi, fattori quali quello demografico, economico e il grado di partecipazione della società civile e delle parti sociali ai processi decisionali e di ricostruzione possono non solo indicare il grado di resilienza di ciascuna città di fronte a eventi naturali sempre più frequenti e intensi, ma possono al tempo stesso rafforzarla, e dunque ridurre il grado di imprevedibilità che spesso viene associato ai disastri naturali e ambientali.

 

Francesca Sperotti

ADAPT Research Fellow

@FSperotti

 

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