Dal lavoro negli spazi confinati agli ambienti di co-working: alla ricerca di nuove regole e identità per i “luoghi” del lavoro*

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C’è ancora un chiaro confine tra ambiente di lavoro e ambiente esterno? È questo il principale interrogativo che accompagna ogni tentativo di inquadrare i nuovi tempi moderni e valutare l’impatto delle tecnologie di ultima generazione sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Anche per questo non è un paradosso, a dieci anni esatti dalla approvazione del Testo Unico del 2008, partire nella nostra riflessione su un argomento solo apparentemente di nicchia come quello degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento. Il rischio, infatti, non è solo quello di perdere definitivamente uno dei tratti distintivi del lavoro del Novecento industriale, e cioè la fabbrica o l’ufficio, ma anche le relazioni, i ruoli, le identità e le reti di protezione e sicurezza che dentro i luoghi di lavoro venivano a costruirsi in termini di comunità. In un mercato del lavoro in rapida evoluzione, dove i lavoratori autonomi sono portati a darsi struttura e ordine, cercando ciò che più somiglia ad un ufficio, e dove per contro i dipendenti aziendali, con orari e gerarchia, ambiscono ad una maggiore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, persistono “non luoghi” di lavoro come gli spazi confinati che, periodicamente, salgono all’onore delle cronache a causa di gravi incidenti e morti sul lavoro. Contesti di lavoro che possono insegnarci molto, rispetto al tentativo di apprestare nuove regole e tutele per il lavoro che cambia, proprio in ragione del loro essere puro spazio fisico ma “non luogo” di lavoro in quanto terreno neutro perché privo di presidi umani e relazionali.

 

La normativa sugli ambienti confinati e sospetti di inquinamento si caratterizza, almeno nelle originarie intenzioni del legislatore, come un tentativo di moderne tecniche di tutela che non inseguono più, con fatica e con basso tasso di effettività, il singolo lavoratore occupandosi piuttosto di mettere a regime un vero e proprio sistema di qualificazione (e dunque selezione) delle imprese per escludere dal mercato quelle meno idonee a garantire, nelle operazioni che devono realizzarsi dentro “non luoghi” di lavoro, la tutela della sicurezza delle persone che sono chiamate svolgere attività di manutenzione o pulizia spesso in regime di appalto o subappalto.

 

L’art.   27   del   D.lgs.   81/2008, infatti, disegna un Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi al fine di selezionare aziende e lavoratori destinati ad operare in un dato settore produttivo sulla base di standard di sicurezza e qualità sostanziali. La Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 6 del D.lgs. 81/2008, ha individuato i settori e i criteri “finalizzati alla definizione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, con riferimento alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, fondato sulla base della specifica esperienza, competenza e conoscenza, acquisite anche attraverso percorsi formativi mirati”. I settori che richiedono una maggiore attenzione in tal senso sono l’edilizia, la sanificazione del tessile e dello strumentario chirurgico, la somministrazione di lavoro, i call- centre (lavoratori autonomi economicamente dipendenti), la ristorazione collettiva, i trasporti, la vigilanza privata e appunto gli ambienti confinati (in relazione ai quali non è ammesso il ricorso a subappalti se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I del D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, e successive modifiche e integrazioni).

 

In caso di esternalizzazione di lavorazioni in luoghi confinati o sospetti di inquinamento, il DPR 177/2011 – tramite il quale si sono individuati i criteri finalizzati alla definizione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi nel settore degli ambienti confinati – ha cercato di arginare il ricorso a forme di lavoro precario e poco qualificato in favore di una forza lavoro stabile e in possesso di adeguate competenze professionali utili a garantire gli obiettivi di prevenzione anche sotto il profilo della salute e sicurezza sul lavoro.

 

Tale sistema di qualificazione, con rilevanti implicazioni anche in termini di organizzazione, benessere e responsabilità di impresa, si propone di valorizzare la distinzione (ben nota nella letteratura sociologica: vedi Marc Augé) tra spazio, neutro e di passaggio, e luogo, caratterizzato invece da una dimensione storico- personale in cui tessiamo relazioni di senso in grado di valorizzare la centralità della persona rispetto al contesto in cui per esempio si svolge un lavoro o una operazione.

 

Emblematica, da questo specifico punto di vista, è allora l’accostamento tra gli spazi confinati, per definizione chiusi, limitati, pericolosi, e gli spazi di co-working che, per quanto aperti e non limitati, rimangono nondimeno particolarmente rischiosi in termini di salute e sicurezza per chi vi lavora in quanto “non luoghi” e cioè contesti privi di identità e, non di rado, di dinamiche comunitarie e relazionali tra persone. La verità, infatti, è che una vera politica di prevenzione e tutela della salute e sicurezza sul lavoro impone di trasformare gli spazi (di transizione) in luoghi (di lavoro), fatti di identità professionali, ruoli, reti di e relazioni. È solo attraverso il concetto di luogo identificato come spazio identitario che riusciamo a superare i limiti attuali nella gestione di semplici spazi di lavoro.

 

Invero, in un mercato del lavoro in cui la distinzione tra ambiente di lavoro e ambiente esterno perde via via sempre più rilievo si corre il rischio di rinunciare non solo ad una adeguata tutela della salute e sicurezza dei lavoratori ma anche all’identità stessa del luogo di lavoro che permette di instaurare relazioni di senso in un’ottica di benessere e comunità.

 

Paradossalmente gli ambienti confinati o sospetti di inquinamento nonostante siano per loro natura e conformazione luoghi con un più elevato rischio in termini di salute e sicurezza dei lavoratori, possono considerarsi maggiormente tutelati proprio in virtù del fatto che sono definiti e dettagliati all’interno della normativa di riferimento, nonostante i risvolti pratici spesso problematici.

 

Le implicazioni che tali contesti hanno sulle scelte organizzative aziendali, infatti, sono perlopiù ancorate al tipo di ambiente in cui viene svolta la lavorazione. Si assiste, nel caso degli ambienti confinati o sospetti di inquinamento, ad un restringimento del campo di azione delle nuove forme di lavoro – caratterizzate spesso da accordi di lavoro agile e, per contro, ad una puntuale previsione di cautele aggiuntive rispetto alle normali precauzioni in materia di salute e sicurezza, con evidenti ricadute in termini di responsabilità personali nonché di carattere penale-amministrativo delle imprese.

 

Ipotizzare una organizzazione dei nuovi ambienti di lavoro, aperti e fluidi, non solo attraverso norme e precetti di legge ma anche tramite presidi istituzionali e relazionali, come per esempio piani di welfare aziendale e forme di rappresentanza collettiva, potrebbe scongiurare quel rischio insito nelle nuove forme di lavoro connesso alla perdita di identità e di relazioni che i nuovi ambienti di lavoro sembrano non curare.

 

Invero, gli spazi di co-working e gli spazi aperti potrebbero essere annoverati tra quei settori individuati dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro per una maggiore tutela in termini di sicurezza sul lavoro in cui viene previsto un particolare sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che obbliga le aziende che intendono operare in tali settori ad ottenere la qualificazione attraverso un adeguamento del proprio modello di organizzazione a determinati standard di sicurezza e benessere organizzativo generalmente inteso.

 

In tal senso, anche la previsione di un Modello di Organizzazione e Gestione ai sensi del D.lgs. 231/2001, quale esimente da responsabilità amministrativa e strumento di garanzia di un luogo all’insegna del benessere organizzativo e della salute e sicurezza dei lavoratori, potrebbe essere vista come una soluzione lungimirante perché in grado di definire i principali criteri, le responsabilità e le modalità per una gestione integrata (informazione, formazione e addestramento) dell’accesso negli spazi confinati o sospetti di inquinamento da un lato, o dell’introduzione di forma di lavoro agile, dall’altro.

 

Ripensare un efficace sistema di gestione della salute e sicurezza, al fine di incrementare la prevenzione degli eventi incidentali per i dipendenti e per tutti i lavoratori – nonché le situazioni di emergenza – avrebbe notevoli benefici anche in termini di produttività del lavoro ed efficienza organizzativa in quanto si otterrebbe una maggiore sicurezza sostanziale, a discapito dei molti formalismi burocratici, più competitività e selezione dei soggetti abilitati ad operare nei settori di riferimento con un contestuale abbattimento delle forme imprenditoriali borderline che si reggono sul dumping contrattuale e sulla demolizione dei diritti della persona che lavora.

 

Giada Benincasa

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@BenincasaGiada

 

*Articolo pubblicato in Dieci anni di Testo Unico di sicurezza, ma ancora molto da fare per la cultura della prevenzione, Bollettino certificazione DEAL – UNIMORE, n. 1/2018

 

 

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