Covid-19 ed il rapporto di lavoro dirigenziale

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Bollettino ADAPT 3 giugno 2020, n. 22

 

Con il complesso di norme costituite dal DL n. 18 del 17.3.2020, c.d. Decreto Cura Italia, convertito in legge in data 24 aprile 2020, e dal DL n. 34 del 2020, c.d. Decreto Rilancio, il Governo ha introdotto diverse misure di sostegno ai lavoratori e alle imprese “connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19” e finalizzate a tutelare i rapporti di lavoro sia nel corso del loro svolgimento sia rispetto alla loro possibile cessazione a motivo della pandemia attualmente in corso.

 

Per cogliere la portata di tali misure, uno degli indicatori è certamente costituito dalla platea dei lavoratori destinatari delle stesse. In tale platea, la categoria dei dirigenti risulta essere coinvolta solo “tangenzialmente”.

 

I dirigenti sono ad esempio esclusi dalla speciale disciplina in tema di ammortizzatori sociali ordinari ed in deroga prevista dal DL 18/2020 così come integrata dal Decreto Rilancio: la normativa emergenziale in commento non deroga infatti all’art. 1 del D.Lgs. n. 148/2015 che in materia di ammortizzatori sociali escludeva espressamente i dirigenti dalle categorie di lavoratori interessati.

 

La mancata applicazione ai dirigenti degli ammortizzatori sociali produce ovviamente dei riflessi sulla gestione quotidiana del rapporto di lavoro che finisce per essere rimessa agli strumenti ordinari.

 

Rispetto ad altre categorie di lavoratori dipendenti, i dirigenti sono assegnatari di mansioni di “concetto” che si prestano ad essere svolte più facilmente tramite il c.d. lavoro agile (o smart working). La eventuale contrazione dell’operatività aziendale può anche non incidere sulle mansioni svolte dal dirigente ed essere ammortizzata tramite una rimodulazione della prestazione lavorativa svolta da remoto. L’assenza di un ammortizzatore sociale produce quindi conseguenze meno dirompenti rispetto a quanto potrebbe avvenire per altre categorie di lavoratori.

 

Nel caso in cui la riduzione/sospensione dell’attività imprenditoriale sia di entità tale da rendere la prestazione del dirigente temporaneamente non ricevibile persino se effettuata in smart working, il rimedio può essere (ed è già certamente stata) la fruizione da parte di quest’ultimo di ferie e permessi.

 

Terminati le ferie ed i permessi, quale estrema ratio alternativa al licenziamento, vi è la sospensione del rapporto di lavoro con il dirigente, con conseguente sospensione anche della relativa retribuzione, versandosi in un caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa per causa non imputabile al datore di lavoro o al dirigente.

 

Ove invece la contrazione dell’attività lavorativa incida stabilmente sulla posizione occupata dal dirigente al punto da renderla in esubero, diventa a quel punto attuale la prospettiva del licenziamento. Ed è proprio qui che emerge un altro aspetto di criticità della normativa emergenziale. Il divieto temporaneo – per un periodo di 5 mesi decorrenti dal 17 marzo 2020 – di intimare licenziamenti per motivi economici previsto dall’art. 46 del DL 18/2020, così come integrato dal Decreto Rilancio, non è applicabile ai dirigenti, almeno a stare ad un’interpretazione letterale di essa. Ciò è desumibile dal fatto che la norma in parola contiene un esplicito riferimento ai licenziamenti per motivi economici disciplinati dall’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 che è notoriamente applicabile ai soli operai, impiegati e quadri: per esclusione, quindi, i dirigenti non rientrano nella platea dei possibili beneficiari del divieto in parola.

 

Il che, sul fronte imprenditoriale, trova una sua giustificazione. Il menzionato divieto si spiega in ragione del fatto che lo stesso imprenditore che non può licenziare può tuttavia beneficiare di strumenti, quali la Cassa integrazione di natura emergenziale, attraverso i quali preservare (o tentare di preservare) la tenuta finanziaria dell’impresa. Laddove invece non possa avvalersi dei menzionati strumenti di integrazione salariale, come nel caso dei dirigenti, l’imprenditore si trova maggiormente esposto alle conseguenze negative generate dalla pandemia e deve conseguentemente essere libero di potere fare ricorso, nei casi più gravi, anche alla soluzione espulsiva.

 

Vedendo la vicenda dalla prospettiva del dirigente, mai come oggi il connubio rappresentato dall’estensione del menzionato divieto di licenziamento sino a metà agosto unitamente al protrarsi della crisi economico-finanziaria generata dalla pandemia, può esporre i titolari dei ruoli di maggior impatto economico o di minor utilità per l’azienda al rischio di esubero.

 

Ricorrendo tale eventualità, diventa importante capire se, e quali, disposizioni possono concretamente incidere sulla decisione aziendale di licenziare.

 

Una prima indicazione è possibile trarla proprio dal menzionato art. 46 del DL 18/2020 nella parte in cui prevede che il divieto riguardi anche i licenziamenti collettivi: tenuto conto che la relativa normativa trova applicazione anche per i dirigenti (art. 24, comma 1 quinques, l. 223/1991), ciò significa (implicando una vera e propria aporia) che gli stessi dirigenti che possono essere licenziati individualmente non lo possono essere collettivamente.

 

Un ulteriore spunto potrebbe essere rinvenuto nella (da più parti condivisibilmente discussa) disposizione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. l, DL 23/2020, c.d. Decreto Liquidità, secondo cui le società che intenderanno beneficiare dei finanziamenti garantiti in tutto o in parte dallo Stato (tramite la Sace S.p.A.) si assumono l’impegno di “gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. Non è infatti da escludere che tali accordi (tramite i quali verrebbero di fatto “procedimentalizzate” e potenzialmente limitate le scelte imprenditoriali) non possano interessare anche i dirigenti.

 

Al netto di tali fattispecie, per la verità marginali, rimane aperta la questione del licenziamento individuale del dirigente per ragioni economiche. Come abbiamo visto sopra, l’art. 46 DL 18/2020 non esclude espressamente i dirigenti dal novero dei beneficiari del divieto in questione ma finisce per farlo indirettamente richiamando l’art. 3 l. 604/1966 (che ai dirigenti non si applica). Anche in ragione di ciò e di una valutazione che ritenga eventualmente ingiustificata la disparità di trattamento riservata ai dirigenti, determinati Tribunali potrebbero essere indotti ad includerli nel novero dei lavoratori beneficiari del divieto, un po’ come già avvenuto per altri istituti espressamente applicabili ad altre categorie di lavoratori e poi successivamente estesi anche ai dirigenti (si pensi, ad esempio, all’estensione, per via giurisprudenziale, ai dirigenti delle garanzie procedurali dell’art. 7 Stat. Lav.).

 

Laddove invece a prevalere sia l’interpretazione letterale della norma in questione, il divieto di licenziamento non potrà trovare applicazione e la valutazione circa la legittimità del licenziamento del dirigente dovrà necessariamente essere effettuata facendo ricorso agli strumenti ordinari ed in particolare al filtro della c.d. “giustificatezza” (tramite un’azione giudiziale che non è peraltro sottoposta ai termini decadenziali di cui all’art. 32 della L. 183/2010 – di 60 gg. per impugnare il licenziamento e di 180 gg. successivi all’impugnazione per depositare il ricorso avanti il Tribunale del Lavoro – ma al termine di 10 anni secondo il recente pronunciamento della Corte di Cassazione n. 148/2020).

 

Laura Dessenes 

Ordine degli avvocati di Milano

 

Giovanni Veca

Ordine degli avvocati di Milano

 

Covid-19 ed il rapporto di lavoro dirigenziale
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