Contro violenza e terrorismo, i 500 euro investiamoli sul lavoro

Un bonus di 500 euro ai neo-maggiorenni da spendere per attività culturali come deterrente alla diffusione del terrorismo. Questa è la misura, sicuramente originale, annunciata dal premier Renzi, che ha subito suscitato molte discussioni.

 

Analizzando la situazione in cui si trovano a vivere i giovani italiani, sono almeno tre i dati che colpiscono. Il primo è l’altissimo tasso di disoccupazione (oltre al 40%) e l’esistenza di oltre 2,2 milioni di Neet. Il secondo l’ha fornito in questi giorni l’Ocse posizionando l’Italia negli ultimi posti per numero di laureati e per salario dopo percorsi formativi di formazione terziaria avanzata. In ultimo il fatto che la totalità dei nuovi posti di lavoro creatisi nell’ultimo anno è a vantaggio degli over 40.

 

Dati preoccupanti che descrivono una generazione quasi perduta, esclusa dal mondo del lavoro e delusa da quello dell’istruzione che non ha saputo offrire loro le competenze che le imprese cercano. Nonostante questo, le recenti politiche economiche e del lavoro sembrano mettere in secondo piano una parte di popolazione, forse un po’ troppo disaffezionata alla pratica elettorale. Abbiamo così da un lato la decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato che favoriscono lavoratori adulti con anni di esperienza, e dall’altro un Jobs Act che cancella le tutele per i giovani neo-assunti che si trovano a lavorare in un mercato caratterizzato da dualismi. E anche quando, come con Garanzia Giovani, si tentano di costruire sistemi per superare queste problematiche il risultato è quello di alimentare nuove illusioni e quindi nuovi risentimenti.

Sembra quasi una presa in giro offrire a giovani che stanno per affacciarsi in un mondo in cui 4 loro coetanei su 10 sono senza lavoro, qualche soldo per il teatro o i musei

 

In questo scenario tragico, al quale potrebbero essere aggiunti diversi altri tasselli negativi, servono a qualcosa i 500 euro per attività culturali? Non vogliamo dare una risposta, perché non possiamo certo saperlo in anticipo. È chiaro però che ci troviamo di fronte al vecchio pregiudizio italiano, spesso non espresso esplicitamente, secondo cui lavoro e cultura sono cose diverse, così come lavoro e formazione e lavoro e crescita della persona. Allo stesso modo non si rileva nessuna connessione tra lavoro e sviluppo sociale, integrazione, miglioramento delle relazioni tra comunità e persone.

Sembra così quasi una presa in giro offrire a giovani che stanno per affacciarsi in un mondo in cui 4 loro coetanei su 10 sono senza lavoro, qualche soldo per il teatro o i musei. Sembra quasi voler, certamente non volontariamente, creare impegni “culturali” per giovani che al momento non hanno alcuna occupazione durante la giornata. Si potrebbe ridere se non fosse un dramma sociale.

 

L’incontro tra domanda e offerta in Italia non funziona, lo skill mismatch è tra i più alti del continente e i beneficiari delle politiche attive sono in costante calo, come ha certificato l’Inps non più di una settimana fa. Non sarebbe un vero investimento culturale utilizzare le decine di milioni di euro destinate al bonus per costruire un sistema di politiche attive funzionante? Per rinnovare i centri per l’impiego che non funzionano? Per aiutare le imprese che fanno vera formazione e assunzione dei giovani?

 

Ciò non significa affermare che l’investimento sulla cultura sia sbagliato o che non sia l’arma giusta per combattere il terrorismo, anzi il capovolgimento di ragionamento fatto dal premier è molto interessante. Ma è ancor più interessante se si capisce che investire sul lavoro è investire sulla cultura, è investire sulla crescita delle persona che saranno così molto più portate a costruire cultura, ma una cultura vera e non solo un passatempo da svolgere nelle lunghissime giornate di un disoccupato o di un giovane Neet. La cultura del lavoro, come dovere e quindi come diritto, è l’urgenza principale, anche in termini di sicurezza e di coesione sociale, in un Paese in cui lavorano 37 residenti su 100 e il tasso di occupazione è del 56 per cento.

 

Non si tratta di discorsi astratti, esistono numerosi studi che mostrano la correlazione tra disoccupazione e inattività e violenza, disprezzo delle istituzioni, disinteresse per il tessuto sociale e il bene comune. Non è neanche retorica, perché è una evidente a tutti che un lavoro è la vera base per iniziare personalmente la costruzione del proprio presente e del proprio futuro e di conseguenza del futuro di una comunità.

 

Non possiamo quindi che augurarci che la saggia decisione di un investimento culturale sui giovani passi dalla creazione di un mercato del lavoro inclusivo e moderno, riversando questi fondi su quelle pratiche, ormai diffuse in quasi tutto lo scenario europeo, che possono aiutare a costruirlo.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghez

 

 

* Pubblicato anche su Linkiesta.it, 27 novembre 2015.

 

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