Contrattazione collettiva e produttività del lavoro: una lettura in chiave di sostenibilità

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Dai risultati della ricerca “Bargaining for Productivity” emerge un tema che rappresenta la possibile chiave di lettura dei problemi che attengono al rapporto tra regole, contrattazione collettiva e produttività del lavoro. È il tema della sostenibilità del lavoro.

 

Impiegata nell’ambito del diritto delle relazioni industriali, la nozione di sostenibilità evoca l’idea del bilanciamento e della proporzionalità tra i diversi interessi sottesi al contratto e al rapporto di lavoro, arricchita della tensione al lungo periodo. La “via alta alla produttività” è quella che passa attraverso un sistema di regole e di organizzazione del lavoro quanto più possibile prossimo al centro del triangolo di Budd, cioè al punto di equidistanza tra le dimensioni dell’efficiency, dell’equity e della voice (Budd 2004). Più ci si allontana da questo punto di equilibrio, più ci sia allontana dall’idea della produttività del lavoro concepita in ottica di sostenibilità.

 

Si considerino ad esempio tre scenari di squilibrio tra efficiency, equity e voice. Un eccesso di voice darebbe luogo a uno stato di rivendicazione permanente, di incertezza e inesigibilità delle regole, e dunque di ostacolo a qualsiasi programma di crescita della produttività di medio-lungo termine. D’altro canto, un eccesso di enfasi sulla dimensione dell’efficiency, renderebbe il lavoro non sostenibile per i lavoratori, con la conseguenza che ogni incremento produttivo di breve termine sarebbe destinato ad esaurirsi nel lungo periodo. Infine, il lavoro sarebbe insostenibile economicamente laddove la dimensione dell’equity fosse sproporzionata: in questo scenario, non solo nel medio-lungo termine la capacità aziendale di generare ricchezza e redistribuirla sotto-forma di incrementi retributivi o nuova occupazione sarebbe compromessa, ma si verrebbero a creare squilibri e dualismi nel mercato del lavoro.

 

La ricerca “Bargaining for Productivity” consegna una serie di dati coerenti con questo disegno teorico. Si riportano di seguito alcune delle principali evidenze emerse, rimandando l’analisi di dettaglio e delle ulteriori informazioni ai singoli rapporti nazionali.

 

La produttività del lavoro è più alta nei paesi, nei settori e nei contesti produttivi in cui l’approccio integrativo (c.d. win-win) alle relazioni di lavoro e alla dinamica negoziale prevale su quello redistributivo. L’ago della bilancia (voice) è la partecipazione: fiducia tra le parti, ottica di lungo termine, attitudine alla collaborazione tendono ad orientare i negoziati verso il centro del triangolo di Budd. Questo vale sia sul piano della configurazione delle dinamiche collettive di regolazione del lavoro, che della stessa natura della causa del contratto individuale. Il caso della Germania è esemplificativo in tal senso: l’ordinamento giuridico tedesco configura il contratto di lavoro come contratto a causa associativa, per cui la conformazione dei relativi istituti sul piano normativo si fonda sul presupposto che gli interessi delle parti convergano rispetto all’obiettivo comune della produttività. Questo dato si riflette anche sul piano delle istituzioni di relazioni industriali: oltre la retorica della co-determinazione, la legge tedesca sui comitati aziendali è chiara nel sancire che “i comitati aziendali cooperano con la direzione d’azienda nell’interesse dei lavoratori e dello stabilimento”. Analogo discorso vale per l’Olanda che, non a caso, è insieme alla Germania il paese più performante in termini di produttività del lavoro. Nei sistemi tradizionali di relazioni industriali in entrambi questi paesi si riscontrano le seguenti caratteristiche: livelli retributivi più alti ma struttura salariale flessibile; orari di lavoro più bassi ma moduli orari flessibili; istituzioni di cooperazione tra management e rappresentanze dei lavoratori e limitazioni al diritto di sciopero, sul presupposto che pacta sunt servanda.

 

Sebbene in Olanda e Germania la crescita della produttività nell’ultimo ventennio sia sempre stata più alta della crescita dei salari, il gap tra i due fattori, oltre a rendere estremamente competitive le aziende esposte alla concorrenza internazionale, appare al tempo stesso sostenibile se rapportato ad esempio al dato della Polonia, dove il medesimo divario è quasi triplo. Neppure serve elaborare un indicatore di sostenibilità per mostrare che, rispetto alla media complessiva delle ore lavorate, fare impresa e lavorare in Germania e in Olanda è più sostenibile che in Polonia: i primi due paesi registrano il livello di produttività più alto in senso assoluto e sono quelli in cui si lavorano mediamente meno ore; la Polonia, viceversa, è il paese dove si lavora di più e si produce meno.

 

La ricerca tuttavia consegna anche il dato di un progressivo abbandono della “via alta alla produttività” in Germania e Olanda, specie in taluni settori del terziario, in ragione del crescente utilizzo di forme di lavoro non-standard cui non si applica la contrattazione collettiva, e in conseguenza dell’esaurirsi degli effetti positivi decentramento produttivo innescato dalle ristrutturazioni dei primi anni del Duemila. Il coordinamento contrattuale quale driver di sostenibilità, continua a funzionare bene, ma per una quota via via decrescente di aziende e di forza lavoro. Ne scaturiscono effetti negativi non solo in termini di crescita delle disuguaglianze sociali, ma anche sul piano delle performance macroeconomiche le quali, nell’ultimo quinquennio, hanno mostrato importanti segnali di erosione in entrambi i paesi.

 

Dove l’approccio redistributivo alle relazioni di lavoro e alla dinamica negoziale prevale su quello integrativo gli effetti sulla produttività sono negativi o comunque controversi. L’ago della bilancia (voice) è il conflitto: l’approccio redistributivo tende a polarizzare più che a bilanciare le relazioni di lavoro tra efficiency ed equity. I casi dell’Italia e della Spagna sono esemplificativi in tal senso. La funzione del contratto collettivo in questi paesi è generalmente redistributiva o di risoluzione dei conflitti. I contenuti contrattuali in genere si caratterizzano per salari bassi e rigidi; orari di lavoro più intensi e poco flessibili; partecipazione debole; voice espressa per lo più in termini rivendicativi. La contrattazione orientata alla produttività rappresenta una eccezione alla regola e tende a configurarsi come contrattazione di tipo concessivo e derogatorio, funzionale alla gestione dell’emergenza. Sia sul piano individuale che collettivo, i conflitti di interesse prevalgono sulla cooperazione così come il breve-terminismo prevale su programmi condivisi di lungo periodo. Inoltre, anche laddove i Ccnl si configurano come frutto di un compromesso equilibrato tra efficiency, equity e voice, le politiche contrattuali definite a livello nazionale sono spesso contestate se non disattese nella fase attuativa, anche con la complicità delle organizzazioni di rappresentanza locali. A questo dato di criticità si somma nel sistema italiano di relazioni industriali quello della contrattazione pirata che mette in crisi gli equilibri raggiunti nei sistemi contrattuali costituiti da organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative.

 

In questo quadro di complessità, cui si aggiunge una certa dose di informalità nell’applicazione delle regole, maturano le premesse per forme di dualismo nel mercato del lavoro e per comportamenti opportunistici da parte di aziende che operano di fatto alla stregua di free rider, a detrimento di concorrenti che invece hanno scelto la via alta della produttività e della sostenibilità quale principale strategia di business oltreché di relazioni industriali. Emergono inoltre contraddizioni come ad esempio quello di una relazione anticiclica tra salari e produttività, per cui i salari crescono quando diminuisce la produttività e viceversa; oppure la tendenza a bilanciare le rigidità nell’organizzazione del lavoro con il ricorso a tipologie contrattuali flessibili anche laddove non strettamente necessitate dal tipo di produzione. Con conseguenti effetti negativi sul piano delle performance economiche e della giustizia sociale.

 

In Polonia e nel Regno Unito si riscontra un eccesso di enfasi sull’efficienza, a discapito delle dimensioni dell’equity e della voice. Si tratta invero di due sistemi caratterizzati da modelli regolatori c.d. market-based e dalla (quasi) totale assenza di contrattazione collettiva sia a livello settoriale, sia a livello aziendale. In Polonia, la straordinaria crescita del tasso di produttività del lavoro nell’ultimo ventennio è spiegata in larga parte dall’effetto catch-up e da un mix tra bassi salari e orari di lavoro intensi. In termini assoluti, tuttavia, il paese registra il livello di produttività più basso, e la propulsione alla crescita della produttività pare essere destinata ad esaurirsi nel medio-lungo periodo. Motivo per cui il governo polacco ha avviato una serie di riforme orientate a una maggiore attenzione alle istanze sociali e alla sostenibilità del lavoro. Analogo problema si riscontra nel Regno Unito, dove l’unilateralismo è la principale logica di governo delle relazioni di lavoro in azienda e dove sono quasi del tutto assenti forme di coordinamento centralizzato del mercato del lavoro. Da quando Margaret Thatcher destrutturò il sistema di relazioni industriali, i livelli di produttività del paese hanno continuato ad aumentare ma con tassi di crescita via via inferiori: oggi il Regno Unito è, tra i paesi considerati, quello che registra la decrescita più marcata dei livelli di produttività nell’ultimo decennio. Polonia e Regno Unito, in conclusione, mostrano che la via bassa alla produttività può anche servire a favorire performance di breve-medio termine, ma non a sostenere una crescita sostenibile nel lungo periodo.

 

Paolo Tomassetti

ADAPT Research Fellow

@Paolo_Tomassetti

 

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