Consultare i lavoratori: quali effetti giuridici? Brevi appunti a margine di una lezione

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Bollettino ADAPT 25 gennaio 2021, n. 3

 

Capita a lezione, anche di un corso di dottorato, che uno studente dei temi di relazioni industriali chieda al docente il significato e anche il valore giuridico del sottoporre a referendum o ratifica dei lavoratori un contratto collettivo appena siglato. La risposta potrebbe sembrare scontata. Eppure, questa potrebbe variare a seconda di come si accosta il dato giuridico a quello sociale.

 

Se da un lato, la manualistica classica si limita a constatare che dottrina e giurisprudenza concordano nel dire che «l’esito negativo [di un referendum] non ha mai influito sull’efficacia dell’accordo collettivo […] presentando solo una valenza politica» (T. Treu, F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, Diritto del lavoro. Il diritto sindacale, UTET, 2016), è pur vero che lo strumento del referendum, o comunque una verifica, di carattere politico-sindacale, all’interno della propria base associativa o di contesto serve a dare una “spinta” ulteriore alla forza espansiva del contratto e quindi all’esigibilità delle pattuizioni.

 

Chi (come parte della dottrina e della giurisprudenza) ritiene che lo strumento del referendum non sia giuridicamente vincolante, adotta come prospettiva ricostruttiva quella della titolarità dell’interesse collettivo in capo alle organizzazioni sindacali. In altri termini, se il contratto collettivo (di qualsiasi livello) racchiude un interesse privato sia pure di natura collettiva e l’articolo 39 della Costituzione riconosce questo preciso interesse solo in capo all’autonomia collettiva (i sindacati), va da sé che questi possono sottoscrivere accordi senza che vi sia alcun processo intermedio di approvazione, poiché si presuppone che quel determinato sindacato sia al tavolo negoziale già in rappresentanza di una sintesi di interessi individuali (su queste dinamiche, illuminante è la lettura di M. Persiani, Saggio sulla autonomia collettiva privata, CEDAM, 1972, che spiega proprio come l’autonomia privata collettiva, diversa da quella generale e individuale, abbia una sua autonomia giuridica che risiede proprio nell’art. 39, comma 1, Cost.).

 

Questo approccio, come detto, trova riscontro anche nella recente giurisprudenza. Proprio sul Bollettino ADAPT, qualche mese fa si ricordava che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8265 del 28 aprile 2020, non ha riconosciuto la natura di accordo collettivo aziendale ad un contratto disciplinante la detassazione dei premi di produttività perché sebbene ratificato e accettato da tutti i lavoratori, non era sottoscritto comunque da un rappresentante sindacale. La legge, infatti, riconosceva la validità giuridica dell’accordo ai fini della detassazione solo ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali. Pertanto, la Suprema Corte ha ribadito ancora una volta il concetto per il quale laddove la norma parla di accordo o contratto collettivo, la titolarità del diritto a negoziare e ratificare spetta solo alle organizzazioni sindacali (F. Lombardo, Contrattazione aziendale: chi può rappresentare i lavoratori? Spunti a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Bollettino ADAPT 13 luglio 2020, n. 28; in questa direzione, vi è anche giurisprudenza che riconosce la titolarità del negoziato ex art. 4 St. Lav. solo in capo al sindacato, sul punto v. L. Citterio, Interesse collettivo e consenso dell’avente diritto: l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori nella recente giurisprudenza di legittimità, in Bollettino ADAPT 3 febbraio 2020, n. 5).

 

Tuttavia, una prospettiva ricostruttiva alternativa, tesa a valorizzare il referendum sotto il profilo giuridico, non è preclusa ed anzi, oggi se ne avverte molto la necessità, soprattutto per distinguere i fenomeni contrattuali patologici da quelli fisiologici. Per comprendere a fondo come il referendum possa incidere giuridicamente sul contratto, è utile richiamare brevi

casistiche per verificare come la procedura possa condizionare sul piano ricostruttivo la sostanza e quindi l’efficacia della norma giuridica di natura collettiva.

 

Oltre alle ben note vicende legate al comparto del trasporto aereo (Alitalia)  – dove l’esito negativo del referendum ha impedito la prosecuzione del negoziato – e allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco – dove, al contrario, l’esito positivo ne ha consentito la sottoscrizione, nonostante i dissidi di una sola organizzazione sindacale – vi è il caso del CCNL applicato dalle agenzie assicurative, che è stato per lungo tempo il contratto sottoscritto dalle associazioni datoriali SNA e UNAPASS (oggi ANAPA) e dalle organizzazioni sindacali Fiba-CISL, Fisac-CGIL e Uilca-UIL. Tra il 2001 e il 2011, si sono succeduti una serie di rinnovi contrattuali, nell’ambito dei quali sono stati contrattati il trattamento economico-normativo e l’istituzione di un ente bilaterale: l’ENBASS. Tuttavia, il 14 aprile 2011, le componenti interne dell’associazione datoriale SNA non hanno approvato l’accordo di rinnovo del CCNL e, di conseguenza, i rappresentanti non hanno ratificato la sottoscrizione del contratto collettivo. In questo caso, il rispetto di una dinamica interna associativa (il rigetto del contratto) si riverbera necessariamente sull’esito del negoziato (la mancata firma del contratto), che nel caso di specie non ha raggiunto l’obiettivo di continuare a far applicare il CCNL alle agenzie aderenti all’associazione SNA. Pertanto, quella consultazione interna ha avuto un riflesso giuridico importante: la non applicazione del CCNL (per una ricostruzione della vicenda, G. Piglialarmi, La rappresentatività tra libertà sindacale e categoria merceologica. A proposito di una recente riflessione di Pietro Ichino, in Bollettino ADAPT, 7 ottobre 2019, n. 35).

 

Un’altra casistica recente che potrebbe risultare interessante è quella degli Shopper. Assogrocery e Fisascat-CISL hanno provato a sottoscrivere un CCNL per questo mestiere emergente ma il sindacato (che avrebbe potuto sottoscrivere il contratto in quanto titolare di un interesse collettivo) ha preferito favorire prima una consultazione preventiva della c.d. “base” (gli Shopper), per verificare se i lavoratori si rispecchiavano nelle pattuizioni raggiunte o meno. Il referendum ha avuto esito negativo e il sindacato si è visto costretto ad abbandonare il negoziato. In realtà, anche l’associazione datoriale ricaverebbe dei vantaggi da questa procedura in quanto la stessa è interessata principalmente a che le pattuizioni siano esigibili (si tratta di quella funzione di managerial control che riveste l’accordo collettivo; sul punto, v. A. D. Flanders, The Tradition of Voluntarism, in BJIR, 1974, n. 12, p. 352-370). Anche in questo caso, emerge la tendenza in base alla quale la procedura va a condizionare fortemente la creazione del dato giuridico (il contratto).

 

Se leggiamo le vicende di relazioni industriali sotto questa prospettiva, allora possiamo convenire sul fatto che: a) se la ratifica del contratto da parte dei lavoratori è posta come clausola espressa nell’accordo ai fini dell’efficacia dello stesso, il referendum assume senza ombra di dubbio un’efficacia giuridica perché ci troveremmo di fronte ad una condizione sospensiva ex art. 1353 cod. civ. (per cui il contratto spiega la sua efficacia solo nel momento in cui si realizza l’evento futuro il cui esito è per definizione incerto); b) anche qualora questa clausola non sia prevista e il sindacato decida, prima di firmare, di consultare la propria base, il referendum, per quanto non vincolante, può condizionare la creazione del dato giuridico (con un referendum negativo, è difficile che il sindacato firmi un accordo).

 

Che oggi il risalto delle procedure democratiche sia essenziale, soprattutto in un contesto di pluralismo sindacale, anche per distinguere i contratti collettivi genuini da quelli pirata è un aspetto che occorre tenere in considerazione. Per cui, anche se non strettamente vincolante sotto il punto di vista giuridico, la pratica referendaria può diventare rilevante per capire se un determinato contratto collettivo ha dietro una composizione di interessi collettivi ascrivibili all’art. 39 Cost. (e quindi di natura sindacale) oppure no. E’, in altri termini, proprio dalla procedura che si può ricavare un sicuro indice di genuinità delle pattuizioni.

 

Va certamente considerato che, spesso, la prassi mostra come accordi di dubbio interesse sindacale siano direttamente sottoscritti dalle parti senza che vi sia traccia di un avvenuta negoziazione o conflitto. Infatti, come emerge dall’esperienza, il sistema di relazioni industriali poggia su alcune regole procedimentali ben sedimentate nella pratica: la relazione e il confronto trovano un primo approdo nel verbale d’incontro, che non sempre può trovare sbocco nell’ipotesi di accordo (e quindi in un accordo collettivo definitivo), in quanto vi è spesso la necessità di ratificare gli impegni contrattati presso l’assemblea dei lavoratori o altri organismi di rappresentanza interni al sindacato (e ciò varia a seconda della metodologia interna dell’organizzazione; sul punto, v. A. Testoni, Manuale di tecnica delle relazioni industriali, Giuffrè, 2014, p. 219; G. Piglialarmi, La funzione del consulente del lavoro, Adapt University Press, 2020).

 

Non è mancato, peraltro, autorevole dottrina che ha sostenuto come il metodo democratico debba caratterizzare costantemente l’operare del sindacato la cui libera organizzazione non è nient’altro che un riflesso della sovranità popolare sulla creazione di norme per disciplinare il lavoro (S. Liebman, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, 1986, Giuffrè, pp. 90-93). Diversamente, M. Rusciano, La difficile metamorfosi del contratto collettivo, in AA. VV., Scritti in onore di Edoardo Ghera, Cacucci, 2008, p. 47, ha (se consentito, con molta franchezza) osservato che sebbene l’art. 39 Cost. nella sua seconda parte – dove è ascritto il principio di democraticità delle organizzazioni sindacali nel rispetto quindi anche dell’art. 1 Cost. – non sia stato attuato, oggi le organizzazioni sindacali di fatto rispettano quel modello. Secondo l’insigne giurista, nella prassi accade che «al termine delle trattative per rinnovare un contratto, viene dalle parti stipulanti semplicemente siglata una ipotesi di accordo, perché il contratto collettivo vero e proprio sarà firmato solo se l’ipotesi medesima verrà ratificata con un referendum, cui partecipano tutti i lavoratori della categoria, cui il contratto si riferisce. È, questa, una prassi ben nota, che nessuno contesta (almeno per ora) e che viene seguita finanche per il contratto collettivo con funzione normativa: il quale, una volta approvato dalla maggioranza dei lavoratori, finisce con l’essere applicato, dal datore di lavoro, anche a quanti, tra costoro, al referendum non hanno votato o hanno votato contro la ratifica. Si tratta, è vero, di una procedura convenzionale e non legale. Ciò fa, del contratto collettivo, una fonte dell’ordinamento sindacale, ma impedisce di qualificarlo fonte del diritto oggettivo. Tuttavia, la medesima procedura, benché distante da quella prefigurata dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost., conduce, alla fin dei conti, allo stesso risultato. Anzi, forse lo fa con una più esplicita, ampia e diretta partecipazione democratica (visto che, ai sensi del 4 comma dell’art. 39 – sempre parlando in astratto – il contratto diventerebbe efficace erga omnes, se firmato dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze unitarie dei sindacati registrati: quindi, certamente con una più ristretta partecipazione democratica)».

 

All’esito di questa breve riflessione, che non ha nessuna pretesa esaustiva né risolutiva della problematica accennata, possiamo certamente trarre qualche spunto di riflessione attorno alle pratiche referendarie: che queste siano promosse “a monte” o “a valle” della sottoscrizione dell’accordo (a seconda del metodo negoziale che varia da organizzazione a organizzazione) rappresentano in ogni caso l’essenza, il vero fulcro della rappresentanza sindacale. Anche se, a parere di chi scrive, non è da escludere che il continuo ricorso a questo strumento, fino ad abusarne, possa condurre a negare lo stesso concetto di rappresentanza, che non significa solo sintesi ma anche guida di un insieme di interessi. Infatti, il sindacato in alcuni casi dovrebbe assumersi la responsabilità di decidere, facendo a meno del referendum.

 

Giovanni Piglialarmi

Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

 

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