Che cosa alimenta la disoccupazione

Non è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. È vero invece che lo Stato spende troppo poco rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve. Il danno maggiore questo squilibrio lo reca all’occupazione. Difetto, da quasi due decenni la disoccupazione è spinta in alto dal fatto che lo Stato preleva ogni anno dal reddito degli italiani decine di miliardi in più di quanti non ne restituisca loro in forma di beni e servizi, mentre per lo stesso motivo l’economia è spinta in basso.
 
Stando ai dati del ministero dell’Economia sul bilancio dello Stato relativi al 2013, ad esempio, lo Stato stesso ha imposto ai cittadini di versargli 516 miliardi in forma di tributi e altro. Però ha messo in conto di spendere a loro favore, sotto forma di spese correnti (al netto degli interessi sul debito) e in conto capitale, soltanto 431 miliardi. La differenza a scapito dei cittadini è di 81 miliardi. Le previsioni, stando ai dati ufficiali del bilancio dello Stato, sono anche peggiori. Per il 2014 esse dicono che ai cittadini saranno sottratti 55 miliardi, rispetto a quanto loro dovuto, che saliranno a 86 nel 2015 e a 104 nel 2016.
 
I governi in carica degli ultimi vent’anni e la maggior parte dei media sono riusciti a diffondere nella popolazione l’idea insensata che la spesa dello Stato serva quasi soltanto a mantenere un po’ di burocrati dei quali non si vede bene che lavoro svolgano. In realtà la spesa dello Stato è costituita dagli stipendi di insegnanti e medici, ricercatori e forze dell’ordine; da un fiume ininterrotto di acquisti di beni e servizi; da investimenti infrastrutturali come scuole e ponti, argini dei fiumi e tutela dei beni culturali.
 
Sottrarre a tutto ciò decine di miliardi l’anno significa per l’intera economia un colossale salasso, insieme con una forte spinta alla disoccupazione, perché ogni stipendio o salario speso in consumi crea altri stipendi o salari, e ogni acquisto di merci, materiali o servizi serve a dar lavoro a qualcuno. Se vengono tagliate o soppresse le risorse che equivalgono, direttamente o indirettamente, a parecchie centinaia di migliaia di posti di lavoro, i risultati sono quelli drammatici che ormai riempiono le cronache.
 
Il suddetto squilibrio tra le maggiori risorse sottratte agli italiani e le minori risorse ad essi restituite sotto forma di beni e servizi si chiama, nel linguaggio della contabilità, “avanzo primario”. Da questo punto di vista l’Italia è il Paese più virtuoso d’Europa. Infatti nessun altro Paese europeo fa registrare da così tanti anni un avanzo primario così elevato.
 
Sarebbe forse il caso di cominciare a riflettere se questo primato supposto positivo non abbia qualche relazione con un altro primato sicuramente negativo: il tasso di disoccupazione, giovanile e non, visto che a parte casi marginali come Irlanda o Grecia, quello italiano, in piena sintonia con l’andamento dell’avanzo primario, risulta pur esso il più alto d’Europa.
 
Dobbiamo far fronte all’onere del debito, si obbietterà, e per ridurre questo serve appunto un crescente avanzo primario. Di certo gli interessi sul debito sono colossali. Quasi 90 miliardi nel 2013, più di 93 previsti per il 2014, mentre quasi 97 e poco meno di 99 figurano nel bilancio di previsione dei due anni successivi. Il punto è che il debito, al pari della possibilità di ripagarlo, sono fortemente influenzati dall’andamento dell’economia.
 
Se lo Stato insiste nel sottrarre sistematicamente ad essa varie decine di miliardi l’anno, dopo averli tolti dal portafoglio dei cittadini che in tal modo non li possono spendere, lo Stato stesso comincia ad assomigliare a un maratoneta che per correre più in fretta si spara sui piedi. Quanto al debito, si può osservare che a forza di asfissiare l’economia perseguendo un avanzo primario sempre più elevato, con relativa caduta della domanda aggregata (consumi più investimenti) perché il cosiddetto “avanzo” assorbe risorse sia pubbliche che private (che sono i soldi sottratti ai cittadini con le imposte e non restituiti in veste di beni e servizi), lo Stato italiano potrebbe essere ormai caduto nella spirale infernale dell’interesse composto.
 
 
Sebbene sia difficile scomporre contabilmente i due elementi, l’irrefrenabile aumento del debito a fronte di spese dello Stato stagnanti induce a sospettare che lo Stato sia costretto a prendere a prestito denaro non solo per pagare gli interessi sul debito, ma pure per pagare gli interessi sugli interessi che è appunto l’inferno in cui cadono sovente coloro che contraggono prestiti da qualche usuraio. In forza della spirale dell’interesse composto, combinata con le politiche economiche regressive che questo governo appare perseguire come tutti i precedenti dalla fine degli Anni 90, il debito pubblico italiano appare ormai impagabile.
 
Proviamo a tirare le fila. Dopo quasi due decenni in cui il tenace perseguimento di un sempre crescente avanzo primario si è accompagnato a un disastroso aumento della disoccupazione; una situazione dell’economia che appare in complesso gravemente deteriorata; un rilevante aumento del debito pubblico, più un cospicuo incremento dell’interesse sul debito, parrebbe giocoforza riconoscere che la strada sin qui seguita è del tutto sbagliata.
 
Trovare alternative non sarà facile, tenuto anche conto che i burocrati di Bruxelles e i maggiori governi Ue non sembrano avere imparato niente dal risultato delle recenti elezioni per il Parlamento europeo, per cui continuano a battere e ribattere sui loro rugginosi e ormai pericolosi chiodi del pareggio di bilancio e simili. Quanto a idee provocatorie: se i 55 miliardi di avanzo primario previsti per il 2014 venissero spesi per assumere subito 3 milioni di disoccupati e metterli al lavoro in numerose opere di interesse collettivo una tra tante: la messa in sicurezza delle scuole, ad esempio, visto che se ne parla qualcuno può essere sicuro che l’economia, l’occupazione e la questione del debito andrebbero peggio di quanto non stiano andando al presente?
 
 
 
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