Certificazione delle competenze: quale valore nell’apprendistato?

La certificazione delle competenze è uno degli aspetti ancora meno approfonditi nel dibattito sul mancato decollo dell’apprendistato. E questa è una vera e propria sorpresa, almeno tra gli addetti ai lavori che non si vogliano limitare agli aspetti formali dell’istituto. Era questo, in effetti, il punto di equilibrio dell’intero sistema dell’apprendistato introdotto dal Testo Unico del 2011, con maggiori flessibilità e aperture nella sua gestione pratica e operativa, a fronte di maggiori certezze sulla verificabilità degli esiti dei percorsi di apprendimento. In attesa dell’attuazione del sistema nazionale di certificazione ed in particolare di un repertorio unico delle qualificazioni, delle qualifiche e dei titoli, per gli operatori del mercato del lavoro e per le imprese la certificazione delle competenze degli apprendisti è un’incognita, mentre per alcuni commentatori ha una valenza meramente interna al rapporto di lavoro, rappresenterebbe cioè uno strumento di attestazione delle competenze maturate indipendentemente dal fatto che venga poi riconosciuta la qualificazione contrattuale o meno al termine del periodo formativo. Ciò ridimensiona il senso e il valore della certificazione delle competenze, che è anche e soprattutto uno strumento per il mercato esterno del lavoro, utile al lavoratore per rendere le sue competenze visibili e trasferibili. Obiettivo, questo, non raggiungibile se le procedure sono idiosincratiche e la certificazione non ha valore al di fuori dell’azienda.
 
Anche facendo un passo in avanti, però, guardando cioè al momento in cui il sistema nazionale di certificazione delle competenze istituito dal decreto legislativo n. 13 del 16 gennaio 2013 sarà attuato, emergono delle criticità legate alle sue caratteristiche ed alla sua coerenza rispetto alla disciplina dell’apprendistato, in particolare professionalizzante. Per un’analisi dettagliata dei contenuti del decreto si rimanda all’e-Book curato da U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo., Certificazione delle competenze. Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 6/2013, ADAPT University Press. Qui ci si limiterà a richiamare i tratti principali del processo delineato dal decreto, che prevede procedure differenziate a seconda che le competenze siano maturate in contesti di apprendimento formale o no. Nel primo caso le competenze vengono individuate e poi certificate. Nel secondo caso (apprendimento non formale ed informale) le competenze, per essere certificate, dovranno prima essere identificate, poi validate attraverso opportuni “riscontri e prove” (quindi previa valutazione) e solo successivamente certificate. Vengono individuati enti titolari (Ministeri e Regioni) e enti titolati a compiere queste operazioni (pubblici o privati); vengono istituiti standard di sistema, di processo, di servizio e di attestazione, viene stabilito in particolare il valore pubblico del processo di certificazione; viene istituito il Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali; si prevede, poi, che il sistema sia attuato senza costi aggiuntivi per la finanza pubblica con possibilità di chiedere ai cittadini di coprire i costi dei servizi di validazione degli apprendimenti e certificazione delle competenze. Al di là delle criticità che già emergono da questa sommaria ricostruzione dei contenuti del decreto, due sembrano in particolare gli elementi problematici per la certificazione delle competenze nell’apprendistato professionalizzante.
 
Concezione restrittiva di apprendimento formale
 
Suscita in primo luogo forte perplessità la determinazione degli ambiti di apprendimento (formale, informale, non formale) e delle rispettive procedure di certificazione (art. 2 d.lgs n. 13 del 16 gennaio 2013). Emerge, in particolare, una concezione restrittiva di apprendimento formale («quello che si attua nel sistema di istruzione e formazione […] e che si conclude con il conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica o diploma professionale, conseguiti anche in apprendistato […]»). Si ritiene di poter escludere, infatti, che il testo indichi come possibile ambito di apprendimento formale tutte le forme di apprendistato normate dal Testo Unico, in quanto, relegando l’apprendimento formale agli insegnamenti impartiti negli istituti di istruzione e formazione, esclude l’apprendistato professionalizzante e quello di ricerca, che si svolgono quasi interamente in impresa.
Questa definizione si contrappone a quella del decreto interministeriale del 26 settembre 2012 sulla certificazione delle competenze comunque acquisite in apprendistato, all’interno del quale l’apprendimento formale è definito come quell’apprendimento erogato in un contesto organizzato e appositamente strutturato come ambito di apprendimento, intenzionale e che si conclude, di norma, con una convalida o una certificazione, quindi maturato anche in azienda. La definizione del decreto legislativo n.13 del gennaio 2013 è conforme, invece, alla più recente accezione europea (Raccomandazione del Consiglio del dicembre 2012 sulla convalida dell’apprendimento non formale e informale, vedila in U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo., Certificazione delle competenze. Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13) per cui l’apprendimento formale è quello erogato in un contesto organizzato e strutturato, specificamente dedicato all’apprendimento, che di norma porta all’ottenimento di qualifiche, generalmente sotto forma di certificati o diplomi e comprende sistemi di istruzione generale, formazione professionale iniziale e istruzione superiore. Facendo esplicitamente riferimento ai sistemi di istruzione e di formazione e non più a qualsiasi contesto appositamente strutturato per l’apprendimento, la definizione contenuta nella Raccomandazione del dicembre 2012 si allontana, a sua volta, dalla definizione più consolidata e presente nel Glossario Cedefop, per cui l’apprendimento formale si svolge anche sul luogo di lavoro.
 
Questa definizione restrittiva dell’apprendimento formale – con la conseguente esclusione dell’apprendistato professionalizzante da quest’ambito – è incoerente con i tentativi di affermare la pari dignità di questo percorso formativo rispetto a quelli tradizionali, ma soprattutto è incoerente con le disposizioni del Testo Unico sull’apprendistato, determinando una serie di difficoltà sul piano operativo. Il Testo Unico prevede, infatti, che il datore di lavoro (o il tutor) individui (in sede di stesura del Piano Formativo Individuale) e riconosca (al termine del periodo formativo) le competenze sviluppate dagli apprendisti. Prevede inoltre che durante il percorso di apprendistato si svolgano delle verifiche, volte a valutare l’effettiva maturazione delle competenze necessarie al riconoscimento della qualifica professionale di destinazione. In un processo formativo che si svolge per la maggior parte del tempo in azienda, l’identificazione e la valutazione delle competenze sono affidate al datore di lavoro e al tutor, a chi cioè ha effettivamente la possibilità di svolgere queste funzioni (grazie all’esperienza e alla conoscenza dei processi di lavoro, e mediante l’osservazione diretta dell’apprendista in situazione di lavoro). Non si comprende come questo sia conciliabile con le procedure previste dal decreto per la validazione e certificazione delle competenze acquisite in contesti non formali: queste impongono che, ai fini della certificazione, le competenze sviluppate dall’apprendista siano prima identificate e valutate (si presuppone da personale degli enti titolati, estranei al processo di apprendimento) e solo a seguito di opportuni riscontri e prove certificate. Ci si potrebbe chiedere: come ci si potrà assicurare che il personale preposto abbia le competenze per valutare ed eventualmente validare le competenze degli apprendisti, maturate in ambiti di lavoro presumibilmente lontani da quelli degli operatori?
 
Marginalizzazione delle parti sociali
 
Il secondo elemento di criticità ravvisabile sul fronte della certificazione delle competenze è l’estromissione delle parti sociali, che sembra minare alla base le chances di successo dell’intero sistema. Nel caso particolare dell’apprendistato, ciò sembra rappresentare una vera e propria garanzia di scarsa efficacia, considerato che il quadro definito a seguito del Testo Unico va esattamente nella direzione opposta. La marginalizzazione delle parti sociali si evince già dalla composizione del Comitato tecnico che dovrà predisporre linee guida per l’attuazione del sistema (Ministeri e autorità locali, mentre sebbene si preveda, in maniera rituale, che siano sentite le parti sociali), oltre che dalle modalità con cui si istituisce un Repertorio nazionale dei titoli, delle qualifiche e delle qualificazioni. Mentre è ancora inattuato il Repertorio delle professioni ex art. 6 del Testo Unico – che avrebbe dovuto basarsi sulle declaratorie professionali dei contratti collettivi per realizzare un efficace collegamento tra mondo della formazione e mondo del lavoro – si crea un Repertorio nazionale che include il primo (oltre che i repertori regionali esistenti), costruito mediante: standardizzazione degli elementi comuni ai vari repertori esistenti; referenziazione ai codici ATECO e CP ISTAT, oltre che all’EQF. Operazione del tutto formalistica che non può che seguire quello che è il primo e imprescindibile passo: l’istituzione del Repertorio delle professioni di cui al Testo Unico, predisposto sulla base  dei sistemi di classificazione del personale previsti nei CCNL e finalizzato alla correlazione tra standard formativi e standard professionali. Questa operazione non chiama però in causa i Ministeri e i loro apparati, né le Regioni, ma le parti sociali, che devono assumersene la responsabilità sia in sede di contrattazione, sia attraverso le strutture della bilateralità che ne sono espressione.
Solo una volta definite in termini di competenze le qualificazioni professionali, ad opera delle parti sociali, sarà realistico parlare di standard per la certificazione delle competenze e di una loro spendibilità e trasferibilità nel mercato del lavoro e dal sistema lavoro al sistema istruzione/formazione e viceversa.
 
Lilli Casano
ADAPT Research Fellow
@lillicasano
 
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