“Bonus mamme”: (poche) luci e (molte) ombre della previsione inserita nella nuova Legge di Bilancio

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Bollettino ADAPT 11 gennaio 2021, n. 1

 

Con la Legge di Bilancio 2021 (legge n. 178/2020), il legislatore, all’art. 1 comma 365, ha introdotto per le madri disoccupate o monoreddito facenti parte di nuclei familiari monoparentali con figli a carico, con una disabilità riconosciuta non inferiore al 60 per cento, un contributo mensile della misura massima di 500 euro netti per ognuno degli anni 2021, 2022 e 2023. Per tale scopo è stata autorizzata una spesa di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni dell’indicato triennio e, al comma 366, viene delegato al Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministero dell’Economia, l’onere di individuare puntualmente i criteri necessari ai fini della fruizione di tale bonus.

 

Affiancata al comma 334, che ha confermato il fondo per il riconoscimento e sostegno del caregiver familiare per il triennio 2021-2023, tale previsione ha dato adito a numerose perplessità, con specifico riferimento alla sua concreta modalità attuativa.

Innanzitutto, il bonus è destinato unicamente alle madri di figli con disabilità, con conseguente esclusione, pertanto, di qualsiasi altro soggetto demandato alla cura di un minore non autosufficiente. A padri e parenti più in generale, quindi, potrebbe al massimo essere riconosciuto lo status di caregiver familiari, se rispondenti alla definizione fornita dall’art. 1, comma 255 della legge di Bilancio 2018; tuttavia non avrebbero accesso al contributo introdotto dal nuovo comma 365.

In secondo luogo, poco chiaro risulta essere anche il riferimento alla disabilità del minore “non inferiore al 60 per cento”. In particolare, prendendo le mosse dalla legge n. 68/1999, sul sostegno dell’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro, l’art. 1, lett. a) individua quali destinatari della legge, tra gli altri, “le persone in età lavorativa affette da minorazioni  fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap  intellettivo,  che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore  al  45 per  cento,   accertata   dalle   competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile (…)”. Come emerge candidamente dal dato normativo riportato, questa legge è stata concepita per l’inserimento lavorativo del disabile; tant’è che la percentualizzazione di cui all’art. 1 sembra essere legata non tanto alle menomazioni in sé e per sé, quanto più alla riduzione della capacità lavorativa dei singoli soggetti (in questa prospettiva, infatti, M. MARAZZA, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel Jobs Act, in Arg. Dir. Lav., 2, 2015, 333, ritiene che dall’art. 1 della L. n. 68/1999 si deve ricavare la nozione giuslavoristica di disabilità). Appare chiaro come, di conseguenza, la normativa in oggetto e i parametri di percentualizzazione così come tratteggiati, siano difficilmente adattabili ad un minore e alla relativa valutazione della sua disabilità. Conseguentemente, è inevitabile interrogarsi su come, dato l’attuale quadro normativo vigente, potranno essere individuate le madri aventi diritto al contributo economico in esame.

 

Deve comunque essere ribadito, come del resto segnalato anche in apertura, che è stato demandato ad un successivo decreto, che dovrà essere emanato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della Legge di Bilancio, l’onere di stabilire con maggiore chiarezza i criteri di fruizione del bonus. È pertanto doveroso attendere le disposizioni del Ministero del Lavoro e del Ministero dell’Economia sulla materia, che dovrebbero chiarire chi ed in che modo potrà godere del contributo economico introdotto con la Legge di Bilancio 2021 (in questo senso si è espressa la Fondazione Studi dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro secondo cui spetterà al decreto ministeriale individuare concretamente i destinatari e quindi fissare anche i relativi criteri per determinare la percentualizzazione; cfr. Le circolari della Fondazione Studi, Le principali misure della Legge di Bilancio 2021, 7 gennaio 2021, pp. 20-21).

 

Se, tuttavia, il decreto ministeriale dovesse essere silente sul punto, si aprirebbero diverse opzioni interpretative. Si potrebbe, infatti, concludere che il termine “disabilità” sia stato utilizzato dal legislatore o (I ipotesi) per fare riferimento alle persone affette da handicap intellettivo oppure (II ipotesi) in modo del tutto “a-tecnico” e quindi per ricomprendendo anche le persone affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali (cioè tutti i soggetti indicati all’art. 1, comma 1, lett. a) della legge n. 68/1999). Peraltro, l’interprete dovrebbe tenere conto anche del fatto che la normativa comunitaria e la giurisprudenza della Corte di Giustizia sono orientate ad interpretare il concetto giuridico di disabilità in modo tendenzialmente non tassativo e quindi molto ampio, tanto da farvi rientrare anche la malattia di lungo periodo. Se quindi il termine “disabilità” è stato impiegato dal legislatore avendo come retrospettiva l’art. 1, comma 1, lett. a) della legge n. 68/1999, i criteri di percentualizzazione non possono che essere quelli adottati dalle commissioni mediche che valutano la riduzione della capacità lavorativa perché – salvo che il decreto attuativo intervenga in merito – l’unica norma di riferimento resta la legislazione in materia di collocamento obbligatorio e disabili.

A tal riguardo, si evidenzia inoltre che, sposando la prima delle ipotesi interpretative si andrebbe incontro, con ogni probabilità, ad una lettura del concetto di disabilità contraria alla ratio della norma. Se, infatti, l’intento del legislatore è quello di sostenere le madri con figli non autosufficienti e, pertanto, bisognosi di cure continuative, scegliendo di far coincidere il concetto previsto dal comma 365 con quello di handicap intellettivo, si rischierebbe di vedere irrazionalmente escluse dal novero dei beneficiari tutte quelle donne il cui figlio abbia una tipologia differente di disabilità, ma egualmente grave.

 

Sarebbe quindi forse preferibile, se il Ministero del Lavoro e quello dell’Economia non dovessero risolvere il dubbio interpretativo, propendere per la seconda delle ipotesi prospettate, che eliminerebbe il rischio di discriminazione sopra descritto. Tuttavia, non può essere trascurato che, anche in questo caso, non verrebbero risolte in toto le problematiche legate al tema. Le commissioni mediche sarebbero infatti chiamate a valutare la percentuale di disabilità del minore secondo i parametri previsti dalla legge n. 68/1999 che, come ricordato, ambisce ad individuare la riduzione della capacità lavorativa, utilizzando, con ogni probabilità, strumenti e criteri difficilmente adattabili ai minori.

 

Proseguendo oltre e allargando lo spettro di analisi sul tema,  sembra ancora una volta emergere l’intento del legislatore finalizzato all’esclusivo sostegno del caregiving familiare. Come infatti non si è mancato di sottolineare in più occasioni (si veda, da ultimo, il Bollettino Speciale ADAPT n. 1/2020 dal titolo Non solo i familiari. Per un mercato del lavoro di cura), con le previsioni contenute nelle ultime Leggi di Bilancio e con le successive proposte di legge avanzate, si è sempre andati nella direzione del sostegno del modello familista alla cura.

Anche la Legge di Bilancio 2021 non si discosta da questo orientamento, prevedendo non solo l’ormai tradizionale fondo per i caregiver familiari, ma addirittura uno specifico bonus unicamente destinato alle madri, considerando assodato il principio secondo cui la cura sia gestita dalle donne, all’interno delle mura domestiche. Donne che sono, nella maggior parte dei casi, effettivamente costrette a fuoriuscire dal mercato del lavoro a causa dell’impossibilità di conciliazione vita-lavoro e nei confronti delle quali, pertanto, vengono elargiti sussidi economici di svariata natura.

 

Ma ciò che è inevitabile chiedersi è se non sarebbe possibile ottenere risultati migliori grazie ad una progettualità differente, in grado di evitare l’esclusione dal mondo del lavoro delle madri caregiver, con conseguente beneficio non solo per queste ultime in primis, ma anche del mercato del lavoro stesso.

È innegabile, d’altro canto, la maggiore difficoltà di ideazione di un modello che sia in grado, da un lato, di sostenere i caregiver familiari, dall’altro, di garantire le migliori cure possibili per la disabilità e, da ultimo, capace di risolvere le distorsioni cui il mondo del lavoro domestico e di cura sono in balia da anni, nel nostro paese.

Tuttavia, è ormai evidente la crisi del welfare state: la popolazione bisognosa di assistenza – e non si parla in questo caso solo di minori – aumenta e continuerà ad aumentare. A tal proposito basti ricordare che secondo gli ultimi dati Eurostat, se attualmente la popolazione italiana over 65 è pari al 22,6%, nel 2050 arriverà ad essere pari al 33,7%, con tutte le conseguenze che comporterà in termini di esigenze di cura e di assistenza.

Stanziare fondi a pioggia nei confronti dei malati e di chi li assiste non solo non poterà alla soluzione di tutte le criticità legate alla cura e all’assistenza ad oggi esistenti in Italia, ma rischia di non essere, già nel breve periodo, più sostenibile economicamente.

 

A tal proposito, varrebbe forse la pena allora iniziare ad ipotizzare gli strumenti con cui favorire una graduale transizione dai cosiddetti “regimi di welfare”, attualmente esistenti in diversi paesi tra i quali anche l’Italia, a più efficaci “regimi di cura”. L’obiettivo finale a cui ambire dovrebbe, infatti, essere una maggiore valorizzazione non tanto e non solo della cura all’interno del nucleo familiare, svolta dalle donne, quanto più di un vero e proprio lavoro di cura professionale fornito, dietro remunerazione, da attori pubblici, privati e non – profit, nonché di quello svolto a cavallo tra formalità e informalità, le cui sfumature e differenze spesso sono poco chiare1.

Si approderebbe, così, a una sinergia e a una interazione tra le cure offerte dai familiari e quelle prestate professionalmente, grazie a nuovi sistemi di fornitura, idealmente più ancorati al territorio e maggiormente capaci di individuare le concrete esigenze del singolo, con conseguenti risvolti positivi sotto diversi profili. Innanzitutto, sarebbe possibile evitare l’abbandono lavorativo dei caregiver familiari, che spesso si trovano nella condizione di dover scegliere tra il lavoro e le proprie responsabilità di cura. Pur riconoscendo la loro essenzialità all’interno della relazione di cura, infatti, questi ultimi avrebbero la possibilità di continuare a percepire un reddito, peraltro senza esigenza di usufruire in modo massiccio di congedi, permessi e contributi economici. In secondo luogo, anche gli assistiti trarrebbero indubbi vantaggi dal ricevere assistenza professionalmente, da parte di soggetti formati, in grado di dare risposte ben diverse alle loro esigenze, rispetto a quelle che potrebbe fornire un caregiver, con ogni probabilità impreparato a farsi carico di oneri spesso complessi.

 

Da ultimo, anche il mercato ne trarrebbe chiari benefici. Costruendo un mercato del lavoro di cura professionale ed elaborando un modello di incontro tra domanda e offerta di lavoro più efficace di quello attuale e più sostenibile economicamente per le famiglie, si otterrebbe in prima battuta la contrazione del lavoro nero, ma si osserverebbero anche vantaggi trasversali, quali ad esempio la valorizzazione della formazione dei lavoratori e la loro conseguente e progressiva professionalizzazione.

 

Irene Tagliabue

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@TagliabueIrene

 

1 Per un approfondimento del tema della transizione dai “regimi di welfare” ai “regimi di cura” si veda A. Ciarini, Famiglia, mercato e azione volontaria nella regolazione del “sistema della cura”: una comparazione tra Italia e Svezia, in Rivista italiana di politiche pubbliche 3/2007.

 

“Bonus mamme”: (poche) luci e (molte) ombre della previsione inserita nella nuova Legge di Bilancio
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