Bargaining for productivity: sintesi del caso-studio italiano*

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L’Italia ha sperimentato una stagnazione della produttività del lavoro dalla metà degli anni Novanta. Molti fattori hanno influenzato questo trend. Tra questi, c’è consenso che le relazioni industriali giochino un ruolo importante, giacché la produttività agisce sia come input della contrattazione collettiva, nella misura in cui può giustificare ad esempio incrementi retributivi, sia come output.

 

Il compromesso alla base del protocollo Giugni del 1993 voleva che, in aggiunta ai contratti collettivi nazionali di lavoro, la contrattazione a livello decentrato avrebbe dovuto collegare aumenti del salario con la produttività, al fine di integrare la politica di contenimento del costo del lavoro praticata a livello di contrattazione nazionale. Tuttavia, secondo una nota tesi (Tronti 2010), essendo lo sviluppo della contrattazione decentrata rimasto limitato a una piccola parte di aziende e di forza lavoro, il mix tra minimi salariali relativamente bassi e mancata redistribuzione degli incrementi di produttività e di redditività a livello aziendale, ha consentito anche alle aziende marginali di rimanere competitive, senza investire in ricerca, sviluppo, tecnologia, competenze e innovazioni di processo e di prodotto: cioè i principali driver della produttività. Da qui il problema del “dualismo imprenditoriale” che si riflette anche sui contenuti e sugli effetti della contrattazione collettiva.

 

Invero, nei contesti dove i negoziati aziendali hanno luogo, essi sono prevalentemente orientati a logiche di tipo redistributivo più che integrativo (c.d. win-win). La regola di coordinamento della contrattazione salariale, secondo cui gli accordi di livello aziendale dovrebbero collegare gli aumenti retributivi alle performance, è spesso violata: diversi aumenti salariali a livello aziendale sono corrisposti in cifra fissa. Ma anche quando i premi di risultato sono effettivamente variabili, raramente si configurano come leva di incentivo alla produttività e alla qualità del lavoro.

 

L’approccio conflittuale alle relazioni industriali è un ulteriore freno alla produttività. Specialmente nelle aziende più piccole, prevalgono i vecchi modelli di HR basati su breve-terminismo e logiche di comando/controllo. Tende a prevalere anche la via bassa alla produttività. Questo è il motivo cui gli “accordi di produttività” in senso stretto in Italia sono rari, e quando vengono negoziati, sono generalmente associati a pratiche di natura concessiva e derogatoria.

 

Anche il processo di deregolazione del mercato del lavoro è annoverato tra le cause della stagnazione della produttività del lavoro, nonché della tendenza anti-ciclica tra salari e produttività. Il crescente utilizzo del lavoro non-standard ha prodotto effetti controversi sulla produttività del lavoro. Nel breve termine, l’utilizzo di tipologie contrattuali flessibili agisce da stimolo alla produttività. Tuttavia, nel lungo periodo, l’eccesso di enfasi sulla produttività e sulla flessibilità, associato a retribuzioni mediamente inferiori e minori opportunità di formazione, ha effetti negativi sulla produttività.

 

Oltre alla stagnazione della produttività, un problema di grande rilevanza per i policy maker e per le parti sociali è il gap tra costo del lavoro e produttività: il rapporto tra questi due fattori è invero un chiaro indicatore di performance. Le parti sociali sostengono che ci sia un’eccessiva tassazione sui redditi da lavoro. C’è anche un certo consenso sulla rigidità della struttura retributiva. Di conseguenza, il nuovo compromesso tra Governo e parti sociali è stato, dal 2009 in poi, allineare i salari alla produttività, principalmente attraverso la promozione della contrattazione aziendale. Dall’accordo trilaterale del 2009, governo e parti sociali hanno promosso incentivi normativi e fiscali per aumentare la contrattazione decentrata. Questi includono tre tipi di strumenti: il riconoscimento di una maggiore autonomia funzionale al contratto aziendale nei confronti del CCNL; politiche fiscali e contributive di vantaggio in favore di misure contrattate a livello aziendale o territoriale; la previsione di un “elemento economico di garanzia” in favore dei lavoratori non coperti da contrattazione di II livello.

 

Oggi si riscontrano timidi segnali di orientamento del dibattito politico e sindacale su tematiche di politica industriale direttamente connesse alla produttività del lavoro. I temi della digitalizzazione dell’economia e della transizione a Industria 4.0 ne sono un esempio. Sebbene si riscontrino sviluppi postivi in tal senso, come ad esempio il recente rinnovo del CCNL Metalmeccanici, segnali di concretizzazione degli intenti programmatici faticano ad emergere. Inoltre, l’implementazione delle misure di incentivo al decentramento contrattuale sopra menzionate ha avuto, tuttavia, una efficacia ancora limitata. Si registrano peraltro prassi elusive a livello aziendale e territoriale. Il riferimento è, ad esempio, agli accordi territoriali per l’accesso ai benefici della detassazione anche senza la firma di un contratto aziendale, oppure il mancato pagamento dell’elemento economico di garanzia. In altri casi, invece, sono detassati premi di risultato fissi.

 

Volgendo lo sguardo ai contenuti della contrattazione collettiva, già a livello di CCNL sono presenti molte misure funzionali a favorire incrementi di produttività, specie in relazione alla flessibilità organizzativa. Disciplina delle tipologie contrattuali flessibili, tentativi di riforma dei sistemi di classificazione e schemi di flessibilità oraria sono esemplificativi in tal senso. D’altro canto, vi sono molte misure, spesso mediate dalla bilateralità, di welfare e inclusione sociale, oltre a istituzioni partecipative come comitati e organismi di confronto tra rappresentanze aziendali e sindacali. La ricerca evidenzia tuttavia come il compromesso tra produttività e sostenibilità del lavoro riscontrabile nei CCNL sia oggi messo in pericolo dalla diffusione della contrattazione pirata. Fenomeni di c.d. dumping contrattuale rischiano nel lungo periodo di deteriorare gli indici di produttività del lavoro più che migliorarli.

 

La contrattazione collettiva aziendale sembra invece essere polarizzata tra buone e cattive prassi. Le best practices, specialmente nelle aziende più grandi e strutturate, riflettono il compromesso sostenibile tra flessibilità e tutele riscontrato nei CCNL. In queste realtà la contrattazione aziendale si configura in termini integrativi e la via alta alla produttività tende a prevalere: i salari più alti, ma legati alla performance; più flessibilità oraria, ma anche più misure di conciliazione vita-lavoro; più istituzioni partecipative ma più regole di gestione del conflitto. Le peggiori pratiche sono quelle in cui prevalgono relazioni industriali conflittuali, con effetti negativi sui contenuti della contrattazione collettiva: ricorso agli scioperi per impedire l’attuazione delle flessibilità stabilite a livello di CCNL; salari più bassi ma fissi; minore partecipazione organizzativa.

 

Giovanni Piglialarmi

ADAPT Research Fellow

@Gio_Piglialarmi

 

*Questo articolo sintetizza le principali evidenze emerse dal report Bargaining for Productivity. The Italian case, a cura di Paolo Tomassetti.

 

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Bargaining for productivity: sintesi del caso-studio italiano*
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