Aspetti giuslavoristici della riforma dell’ordinamento penitenziario

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Dopo un iter di approvazione accidentato a causa delle tensioni politiche dovute alle elezioni ed al cambio di maggioranza parlamentare, sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i decreti legislativi attuativi della c.d. riforma penitenziaria: il d. lgs. n. 123/2018, in materia di assistenza sanitaria, vita penitenziaria, semplificazione delle procedure esecutive; il d. lgs. n. 124/2018 avente ad oggetto la disciplina dell’attività lavorativa penitenziaria, entrati in vigore il 10 novembre 2018.

 

Con specifico riferimento al lavoro penitenziario, la riforma introduce significative novità di rilevanza giuslavoristica. Preliminarmente, si rileva l’ampliamento degli elementi del trattamento rieducativo con la modifica dell’art. 15 o.p. Si introduce l’esplicito riconoscimento, quali elementi trattamentali, della formazione professionale e della partecipazione a progetti di pubblica utilità, che così acquisiscono la medesima dignità trattamentale del lavoro.

 

Certamente, il fulcro della revisione degli aspetti giuslavoristici dell’ordinamento penitenziario è la riscrittura dell’art. 20 o.p., che contiene modifiche alla previgente disciplina. Con la riformulazione del primo comma, si esplicita la possibilità (in capo all’amministrazione penitenziaria) di organizzazione e gestione di lavorazioni attraverso l’impiego di prestazioni lavorative di detenuti ed internati. Tale esplicitazione si realizza congiuntamente ad un ampliamento, consistente nella possibilità di organizzare e gestire non solo lavorazioni ma anche servizi, e di poter fare ciò non solo all’interno ma anche all’esterno dell’istituto di pena. La gestione e l’organizzazione delle lavorazioni, così come l’istituzione di corsi di formazione, resta ammessa anche ai soggetti terzi. In recepimento delle prassi interpretative successive alla l. Smuraglia, si ha anche sul piano formale e letterale l’estensione di tale facoltà dalle imprese pubbliche o private ad enti pubblici e privati. Inoltre, è stata eliminata all’interno del testo normativo la specificazione dell’obbligo di sottoscrizione di una convenzione con la regione per l’attivazione di corsi di formazione professionale da parte di soggetti privati.

 

In conformità alle indicazioni sovranazionali ed alle più recenti evoluzioni dottrinali, è stato rimosso il carattere dell’obbligatorietà del lavoro penitenziario, eliminando un riferimento normativo potenzialmente suscettibile di interpretazioni e letture non compatibili con le istanze rieducative della pena. A livello di prassi nulla cambia: l’amministrazione penitenziaria non era e non è in grado di garantire il lavoro a tutta la popolazione ristretta, così come nella prassi il detenuto può dichiarare di non volere svolgere alcuna attività lavorativa e la sua richiesta sarà accolta e liberamente valutata dal Magistrato di sorveglianza ai fini della concessione delle misure premiali. Restano confermati i caratteri della non afflittività, dell’onerosità e della equiparazione di organizzazione e metodi di lavoro con quelli della società libera.

 

Anche la disciplina sull’avvio al lavoro penitenziario ha subito una rivisitazione, con un’operazione di “restyling” normativo. Emerge immediatamente la rimozione di qualunque richiamo alla soppressa (dal 2002!) disciplina del collocamento ed alla l. n. 56/1987, tuttavia non compensata con un formale richiamo ai servizi per l’impiego normati dal d. lgs. n. 150/2015, né da un effettivo raccordo normativo con la disciplina propria della società libera. Le problematiche di accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali derivanti da ciò sono risolte con l’introduzione dell’art. 25-ter o.p., il quale impone all’amministrazione penitenziaria di rendere disponibile a favore dei detenuti e degli internati, anche attraverso apposite convenzioni non onerose con enti pubblici e privati, un servizio di assistenza all’espletamento delle pratiche per il conseguimento di prestazioni assistenziali e previdenziali e l’erogazione di servizi e misure di politica attiva del lavoro. La disposizione recepisce la sperimentazione del Ministero della Giustizia di implementazione di servizi per il lavoro presso gli istituti penitenziari pilota di Trani, Sant’Angelo dei Lombardi e Milano Opera, tramite apposite convenzioni con le rispettive regioni e province. Resta confermato il (vetusto, in quanto ricalca la modalità di collocamento prevista per la società libera nel 1949) sistema di assegnazione al lavoro fondato sui due elenchi, uno generico ed uno per qualifica, con l’obbligo di tenere conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione o di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute. Quest’ultima dizione sostituisce (appiattendone i contenuti sul saper fare) la precedente di “professionalità”, ed è rimosso il richiamo alle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui i detenuti potrebbero dedicarsi dopo la dimissione, eliminando così un aspetto fondamentale affinché l’assegnazione al lavoro avvenga secondo criteri strumentali ad un effettivo reinserimento nel mercato del lavoro.

 

D’altra parte, la riforma consente al direttore di derogare ai suddetti criteri di assegnazione dei detenuti “per specifiche ragioni di sicurezza”, il che lascia intendere che il legislatore abbia inteso legalizzare la prassi di disapplicazione del sistema di avviamento al lavoro previgente in funzione di istanze contenitive e securitarie delle direzioni penitenziarie. Risulta inoltre esplicitamente recepita nella legislazione la prassi di stabilire criteri di avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal DAP. L’ownership del processo di avviamento al lavoro è rimessa ad una commissione, la cui composizione è stata ampliata: il direttore (o altro dirigente penitenziario delegato), i responsabili dell’area sicurezza, i responsabili dell’area giuridico – pedagogica, il dirigente sanitario della struttura penitenziaria, un funzionario dell’UEPE, il direttore del Centro per l’impiego (o un suo delegato), un rappresentante sindacale unitariamente designato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative a livello territoriale e, senza potere deliberativo, un rappresentante dei detenuti e degli internati. Alcuni componenti erano già presenti nella precedente composizione (sebbene denominati con terminologia oggi superata e individuati a mezzo di elezione all’interno della categoria di appartenenza), altri invece sono stati introdotti ex novo. Anche la commissione in questione ha potere di derogare ai criteri di assegnazione anzidetti, sebbene “per motivi di sicurezza”, dizione avente un tenore tale da permettere di ritenere che il potere derogatorio della commissione sia esercitabile in misura più ampia rispetto al direttore. La riforma introduce un criterio di decisione a maggioranza dei presenti, ed impone la gratuità dell’attività di componente della commissione.

 

Nell’ambito delle misure di assistenza post – penitenziaria, di cui all’art. 46 o.p., la riforma introduce per coloro che hanno terminato l’espiazione della pena o che non sono più sottoposti a misura di sicurezza detentiva e che versano in stato di disoccupazione l’assegno di ricollocazione di cui all’art. 23 d. lgs. n. 150/2015, purché ne facciano richiesta entro sei mesi dalla data di dimissione. Vero è che gli scarsi risultati che la sperimentazione di tale strumento di politica attiva ha avuto nella società libera e soprattutto l’aver condizionato per gli ex detenuti l’accesso a tale misura nei limiti delle risorse disponibili espongono ad ineffettività tale disposizione.

 

È confermata (e terminologicamente precisata) la possibilità di stipula da parte dell’amministrazione penitenziaria di convenzioni di inserimento lavorativo con soggetti pubblici, privati o cooperative sociali interessati a fornire opportunità di lavoro ai detenuti. Sono tuttavia previsti ora importanti oneri di pubblicità di convenzione, progetti di intervento e curriculum dell’ente terzo.

 

Ugualmente, è precisata la facoltà per le direzioni penitenziarie, previa autorizzazione del Ministro della giustizia, di vendere i prodotti delle lavorazioni penitenziarie a prezzo pari o inferiore al loro costo, estendendosi tale possibilità anche alla resa di servizi, e prevedendosi con la riforma che i proventi delle manifatture e il corrispettivo dei servizi siano da ultimo utilizzati per promuovere e sviluppare la formazione professionale e il lavoro dei detenuti ed internati. Questa disposizione, unitamente con quelle di cui all’art. 20, c. 1, o.p. ed alla rimozione del criterio di compatibilità di cui all’art. 20-bis, c. 2, o.p., mira a rivitalizzare il lavoro intramurario organizzato e gestito dall’amministrazione penitenziaria, consentendo potenzialmente alla medesima di competere con i propri prodotti e servizi nel mercato, se del caso anche partecipando ad appalti pubblici e privati.

 

Altra novità (per i dettagli della quale dovrà attendersi apposito decreto interministeriale) è rappresentata dalla possibilità di ammettere detenuti ed internati ad esercitare attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, in alternativa alla normale attività lavorativa, anche mediante l’uso di beni e servizi dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di una nuova modalità di impiego della popolazione ristretta per cui parte della produzione non viene venduta o scambiata ma destinata dai produttori ai consumi propri. Ad esempio nella Relazione del Tavolo n. 8 degli SGEP si riporta l’esempio della Casa di Reclusione di Milano Opera, dove la direzione ha messo a disposizione dei detenuti degli spazi verdi intramurari ed ha avviato iniziative di produzione di ortaggi e frutta “in serra”, gestite dai detenuti e finalizzati a realizzare una coltivazione intensiva di prodotti e manufatti destinati al consumo sia interno che esterno. Se tale modalità produttiva consente di incrementare le occasioni lavorative dei detenuti e di attivare un’“economia circolare” sia all’interno di un Istituto di pena (per le carceri più grandi ed attrezzate) sia all’interno di un circuito di istituti, dove le eccellenze e le produzioni dell’uno vanno a fornirne un altro che a sua volta scambierà i propri prodotti e manufatti in una sorta di circuito virtuoso e solidale, e pur vero che un sistema orientato alla autosussistenza e tendenzialmente “autarchico”, proprio di un’economia arretrata e agricola, non sembra riflettere organizzazione e metodi di lavoro propri della società libera, avente un’economia terziarizzata.

 

Recependo (finalmente) le statuizioni della sentenza Corte Cost. n. 158/2001, si prevede la garanzia del riposo annuale retribuito. Inoltre, è riconosciuta la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti, nei limiti degli stanziamenti regionali, oltre che ai detenuti ed internati che frequentano i corsi di formazione professionale, anche a quelli che svolgono tirocini. In tal modo, sebbene indirettamente, l’ordinamento penitenziario riconosce esplicitamente (significativamente in una disposizione che si riferisce anche alla formazione professionale) lo svolgimento del tirocinio, rimuovendo però la disposizione che prevedeva l’ammissione ad un “tirocinio retribuito”, interpretata però da parte della dottrina come riferita all’apprendistato. Tali considerazioni inducono a ritenere ammissibile il tirocinio gratuito del detenuto, laddove ammesso dalle legislazioni regionali in materia di tirocinio extracurricolare.

 

Una delle principali novità giuslavoristiche della riforma è l’elevazione del lavoro volontario e gratuito dei detenuti nell’ambito di progetti di pubblica utilità a fattispecie autonoma e distinta dal lavoro esterno di cui all’art. 21 o.p., cui è riservato l’art. 21-ter o.p., con contestuale abrogazione del comma 4-ter dell’art. 21 o.p. In conformità a ciò, a differenza del precedente assetto normativo tale attività d’impiego del detenuto od internato può svolgersi anche all’interno degli istituti penitenziari, fermo restando che non possono in alcun caso avere ad oggetto la gestione o l’esecuzione dei servizi d’istituto. È confermato che l’attività volontaria può consistere in attività da svolgersi a favore di amministrazioni dello Stato, regioni, province, comuni, comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, sulla base di apposite convenzione, mentre è stato eliminato il profilo strettamente riparatorio consistente nel prestare la propria attività a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. La direzione tecnica di tali attività può essere affidata anche a persone estranee all’amministrazione penitenziaria. Il legislatore ha ritenuto altresì di esplicitare la disciplina suppletiva in caso di lacune normative, consistente nell’applicazione dell’art. 21, c. 4 o.p. (necessità dell’approvazione del magistrato di sorveglianza), e, in quanto compatibile, dell’art. 48 reg. es. (lavoro esterno dei detenuti) e del decreto del Ministro della giustizia 26 marzo 2001 (lavoro di pubblica utilità). Precisazioni restrittive sul lavoro di pubblica utilità all’esterno sono previste per detenuti condannati per talune tipologie di delitti, fermo restando che in generale i detenuti e gli internati possono essere assegnati al lavoro di pubblica utilità svolto all’esterno in condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’art. 15 o.p. Il legislatore cerca di incentivare il lavoro di pubblica utilità condizionando l’erogazione di finanziamenti in funzione del numero della qualità dei progetti di pubblica utilità promossi dagli istituti penitenziari.

 

Ad un primo impatto si apprezza l’eliminazione terminologica della mercede, sostituita dalla locuzione “remunerazione”, attraverso la modifica dell’art. 22 o.p., che prende atto della sostanziale coincidenza tra i due istituti, originariamente differenti, a seguito della sentenza Corte Cost. n. 49/1992 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 o.p. nella parte in cui stabiliva una riduzione dei tre decimi della mercede per esigenze di assistenza alle vittime del delitto. All’eliminazione terminologica non segue però l’eliminazione dell’istituto, che anzi, diviene ulteriormente penalizzante per il lavoratore detenuto. Se nel preesistente assetto normativo l’importo della mercede era determinato equitativamente in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro da un’apposita commissione, con la riforma è stato abbandonato il criterio equitativo in favore di una proporzione fissa pari ai due terzi dell’anzidetto trattamento economico. Chiaramente la revisione risponde alla duplice esigenza di contenere il costo del lavoro penitenziario e di disinnescare il contenzioso giuslavoristico causato dal mancato adeguamento periodico dell’importo della mercede ad opera della commissione. Ciononostante, una simile revisione espone ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale, giacché il criterio equitativo erano uno dei cardini che garantiva il rispetto dell’art. 36 Cost., come indicato nella sentenza Corte Cost., n. 1087/1988, senza contare il potenziale disvalore rieducativo di tale sistema retributivo che non riflette i metodi retributivi della società libera.

 

Da ultimo si dispone, con una modifica all’articolo 9-bis d. l. n. 510/1996, che anche nel caso di lavoratori detenuti o internati che prestano la loro attività all’interno degli istituti penitenziari alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o di altri enti, pubblici o privati, debbano essere effettuate le comunicazioni obbligatorie richieste dalla legge per l’instaurazione dei rapporti di lavoro.

 

Ad una prima analisi degli aspetti giuslavoristici nel loro insieme, la riforma si presenta tutto sommato un’occasione per buona parte sprecata per un vero rilancio della risocializzazione attraverso il lavoro. Le istanze alla base della riforma, influenzate dalle ristrettezze di bilancio sul tema, perseguono una finalità di rilancio del ruolo dell’amministrazione penitenziaria quale gestore ed organizzatore del lavoro penitenziario (e dunque del lavoro a retribuzione ridotta). L’amministrazione penitenziaria, però, si è mostrata inadeguata ad organizzare attività lavorativa in forma imprenditoriale per limiti più culturali e competenziali che normativi. La riforma promuove, in generale, le tipologie lavorative penitenziarie meno costose (lavoro di pubblica utilità ed autoconsumo). Salvo alcune apprezzabili disposizioni programmatiche di politica attiva, per il resto l’intervento riformatore si sostanzia soprattutto nella “legalizzazione” di prassi o sperimentazioni vigenti o ancora adeguamenti alle fonti sovranazionali ed alla giurisprudenza costituzionale. Gli aspetti più interessanti e dirompenti rispetto il previgente assetto normativo, proposti in sede di SGEP, o non sono stati recepiti, oppure sono stati espunti in corso di approvazione, come nel caso dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità a titolo volontario e gratuito quale presupposto per un aumento dello sconto di pena riconosciuto a titolo di liberazione anticipata.

 

Alessandro Alcaro

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@AlexAlcaro

 

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Aspetti giuslavoristici della riforma dell’ordinamento penitenziario