Arginare la piaga dei contratti pirata

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Bassa esigibilità della contrattazione collettiva e basso allineamento tra salari e produttività
sono da sempre indicate tra le principali disfunzioni del nostro sistema di relazioni industriali.
Due questioni molto importanti che, nella lunga marcia verso le regole sulla rappresentanza, hanno
monopolizzato il dibattito sulla riforma del sistema contrattuale in Italia
 
Eppure la rilevanza dei due ordini di problemi resta in larga parte circoscritta alla componente manifatturiera dell’economia. Anche in ragione della minore diffusione del sindacato, fuori dal tradizionale perimetro associativo della Confindustria, il costo del lavoro coincide sostanzialmente con quello definito dal CCNL, e i contratti collettivi sono applicati in assenza di conflitto.
 
Un altro problema minaccia l’equilibrio dei sistemi di relazioni industriali del mondo del terziario e dei servizi. Nel quinquennio coincidente con la crisi economica la concorrenza tra diversi CCNL nel medesimo settore, da massima espressione del principio di pluralismo sindacale, si è trasformata in una competizione al ribasso dando luogo a fenomeni di dumping contrattuale che stanno assumendo la dimensione di una vera e propria piaga sociale.
 
Si tratta del fenomeno dei c.d. contratti collettivi pirata. Tecnicamente, accordi «negoziati e poi firmati da sindacati minori, privi di una reale rappresentatività, e da compiacenti associazioni imprenditoriali, con la finalità, aperta e dichiarata, di costituire un’alternativa rispetto al contratto collettivo nazionale di lavoro, in modo tale da consentire al datore di lavoro di assumere formalmente la posizione giuridica – e, quindi, i conseguenti vantaggi – di chi applica un contratto collettivo» (Maresca, 2010).
 
La diffusione dei contratti pirata è oramai ampia. Basta aprire la banca dati del CNEL per vedere come negli ultimi anni siano proliferati contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti dalle più variegate rappresentanze datoriali e sindacali prive di una reale consistenza numerica. Nei settori di riferimento della Confcommercio se ne contano almeno 5. Mentre in quelli afferenti a Confprofessioni 2. Il dato è ancora più allarmante, trattandosi di due sistemi di rappresentanza consolidatosi in anni di relazioni sindacali che hanno generato welfare con prestazioni e servizi, i cui oneri, a carico di imprese e lavoratori, sgravano anche la fiscalità generale. Oneri di cui, evidentemente, non si fanno carico imprese e lavoratori coperti dai contratti collettivi alternativi e a basso costo.
 
Analogo ragionamento può essere svolto in relazione alla proliferazione dei Fondi interprofessionali per la formazione continua. Autorizzati anche quando costituiti da associazioni datoriali e sindacali con diffusione minima, in virtù di una norma di legge (art. 118, legge n. 388/2000) che utilizza quale criterio di selezione delle organizzazioni datoriali e sindacali intitolate a costituire i fondi interprofessionali il criterio della maggiore rappresentatività per i fondi dei dipendenti. Diversamente da quanto previsto, nello stesso comma, poche righe più in basso, per i fondi dei dirigenti, che possono essere istituiti solo dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Il risultato è che questi mini-fondi, che si avvantaggiano anche della portabilità, operano al di fuori di sistemi di relazioni sindacali storicamente consolidate.
 
Rispetto a queste problematiche le nuove regole sulla rappresentanza possono davvero poco. Salvo che non si proceda ad un intervento legislativo di sostegno che riconosca forza di legge ai CCNL e che definisca i principi per la misurazione della forza rappresentativa anche delle associazioni datoriali, il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 non scioglie il nodo della concorrenza di diversi CCNL nello stesso settore, né l’annesso problema degli accordi pirata.
 
Esclusa l’ipotesi della legge sindacale, il legislatore dovrebbe essere attento nel riservare l’esercizio delle aperture legali in favore della contrattazione collettiva non solo alle organizzazioni sindacali, ma anche alle associazioni datoriali comparativamente più rappresentative. In modo che soltanto i soggetti dotati di una reale rappresentatività comparativa possano beneficiare dei maggiori spazi di flessibilità che la legge riserva alla contrattazione collettiva.
 
Una soluzione questa per preservare il valore dell’autonomia collettiva e al contempo garantire equità e giustizia sociale nel mercato del lavoro.
 
Paolo Tomassetti
ADAPT Research Fellow
@PaoloTomassetti
 
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