Appunti di viaggio /4. CCNL Metalmeccanici, un’implementazione a più velocità

A circa due mesi dall’approvazione del rinnovo del CCNL per l’Industria metalmeccanica da parte dei lavoratori le organizzazioni sindacali e le aziende bresciane cominciano a fare i conti con la sua implementazione. Su un terreno prossimo alle logiche di produzione, lontano dalle vetrine pubbliche acclamanti il successo dell’intesa unitaria, le parti sociali sono chiamate a dare effettivo seguito alle novità contenute. Tra queste, il diritto soggettivo alla formazione, il welfare contrattuale e la maggiore variabilità delle erogazioni retributive di livello decentrato. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, le fratture composte al tavolo nazionale sembrano non accennare ad appianarsi nella realtà bresciana.

 

Sono due le disposizioni da tenere in considerazione per comprendere l’accelerazione che il nuovo CCNL conferisce al decentramento contrattuale e al suo ruolo nella determinazione di un salario coerente con l’andamento economico delle imprese. La prima riguarda gli aumenti dei minimi tabellari e la facoltà, a loro attribuita, di assorbire gli incrementi individuali (fatte salve specifiche clausole di non assorbibilità) e gli emolumenti fissi della retribuzione (fatta eccezione per quelli strettamente connessi alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, come le indennità o maggiorazioni per il lavoro straordinario, notturno o festivo), eventualmente concordati in sede di contrattazione aziendale dopo il 1° gennaio 2017. La seconda si riferisce, invece, alla totale variabilità del premio di risultato, messo in relazione agli obiettivi di performance conseguiti dalle aziende.

 

Apparentemente, non c’è nulla di più pacifico nel nuovo contratto nazionale della possibilità, per le imprese, di contrattare premi di risultato, purché variabili, e dell’obbligo di assorbire gli elementi in cifra fissa, come superminimi collettivi e una tantum, negli aumenti dei minimi tabellari. Eppure, l’autonomia dei negoziatori di secondo livello e l’influenza di un particolare modello di rappresentanza dei lavoratori rendono particolarmente elevata, a Brescia, la probabilità di incorrere, ancora una volta, in contratti integrativi che, oltre a prevedere erogazioni premiali di dubbia variabilità, stabiliscono aumenti in cifra fissa non assorbibili dalle evoluzioni dei minimi salariali. Attitudine questa, che continua a trovare una sponda favorevole nella reticenza di alcuni imprenditori bresciani a limitare la propria discrezionalità nei processi distributivi, e a renderli permeabili al contributo collaborativo delle rappresentanze dei lavoratori. Così, anche il potenziale innovativo del nuovo contratto nazionale rischia di perdere tenuta a causa dell’avversione delle parti sociali di livello territoriale e di un approccio ancora conflittuale alle relazioni industriali.

 

È un sistema contrattuale a due o più velocità quello che si trova riconfermato a pochi mesi dall’entrata in vigore del nuovo CCNL, allorché al ritmo imposto dalle federazioni nazionali fanno seguito le battute recalcitranti di alcuni attori seduti ai tavoli di negoziazione aziendale. Una diversificazione di pratiche e culture, anche all’interno dello stesso settore metalmeccanico, che si muove controcorrente rispetto alla portata unificante delle attuali trasformazioni: tra le altre, l’affermazione di una “economia della conoscenza” e l’imminenza di una ondata rivoluzionaria 4.0. Complice della polverizzazione dei modelli tradizionali di relazioni industriali, è la persistente divaricazione delle logiche di rappresentanza che resiste all’influsso della firma unitaria del contratto nazionale. Tutti elementi che impongono prudenza nell’applaudire al cambiamento introdotto dal CCNL, senza preoccuparsi della sua effettiva implementazione. Se diversi sono, infatti, i fattori socioeconomici che impongono una spinta al decentramento, sono altrettanti le specificità e gli elementi di resistenza territoriali che proprio lo spostamento di questo equilibrio contribuisce a far affiorare.

 

Resta, allora, più che mai attuale il monito della commissione per la verifica del protocollo Giugni, laddove precorreva che il cambiamento delle regole del gioco è destinato a rimanere inefficace «finché gli attori sociali non muteranno la loro cultura contrattuale, rispettando l’impegno a perseguire una politica salariale che utilizzi parametri oggettivi» [1].

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Junior Research Fellow

@ilaria_armaroli

 

[1] Relazione finale della Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993, § 27.

 

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