Apprendistato dopo il Jobs Act: gli ennesimi tentativi di valorizzazione

Un’altra opera di restyling. A quattro anni dall’emanazione del Testo Unico dell’Apprendistato, intervenuto per porre rimedio alla stratificazione di norme che regolavano l’istituto, è recentemente stato emanato il d.lgs. n. 81/2015 contenente la disciplina organica dei contratti di lavoro che abroga il d.lgs. n. 167/2011.

 

Enfatizzato come “il prevalente canale d’ingresso nel mondo del lavoro per i giovani”, l’istituto dell’apprendistato non è nuovo ai ritocchi, se pensiamo che dal d.lgs. n. 167/2011 i legislatori che si sono succeduti hanno apportato modifiche più o meno significative, che il più delle volte si sono rivelate di carattere marginale.

 

La nuova riforma, nel ribadire la natura di contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione di giovani, conferma le tre tipologie contrattuali e modifica in maniera trascurabile la loro denominazione terminologica. In particolare viene ritoccata la definizione della prima tipologia, che viene ora individuata come “Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore”, mentre la seconda tipologia viene indicata esclusivamente come apprendistato professionalizzante.

 

Cambiamento di forma non di sostanza. Il legislatore nella definizione della disciplina comune a tutte le tipologie precisa, all’art. 42, che il contratto deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova. Il mancato riferimento del patto di prova, però, non esonera tuttavia le parti da questa formalità, quale principio generale dell’ordinamento. Diversamente, la forma scritta del piano formativo individuale, la durata minima del rapporto di lavoro, la disciplina applicabile in caso di licenziamento illegittimo e il recesso del rapporto di lavoro sono elementi che rimangono nei confini della contrattazione collettiva dove le parti sociali possono (ancora) disciplinare la materia dell’apprendistato.

 

Apprendistato professionalizzante senza limiti d’età. È stato eliminato qualsiasi riferimento all’età anagrafica nella definizione della durata e delle modalità di erogazione della formazione da parte della contrattazione collettiva. Ne consegue che sarà solamente il tipo di profilo professionale a determinare la durata della formazione, cosi come stabilite dalla parti sociali.

 

L’apprendistato professionalizzante vede oggi un’estensione della platea dei soggetti interessati grazie alla possibilità di assumere lavoratori in mobilità o che beneficiano del trattamento di disoccupazione, a prescindere dall’età. Questa disposizione oltre a rappresentare un incentivo per le aziende che possono godere dei medesimi sgravi, rappresenta uno strumento di qualificazione professionale per coloro che sono stati espulsi dal mercato del lavoro.

 

L’apprendistato di alta formazione e ricerca, al pari di quello di primo livello ha conosciuto maggiori e più importanti novità. L’art. 45 disciplina le modalità di definizione del piano formativo, il cui onere è a carico dell’istituzione formativa o l’ente di ricerca, in collaborazione con l’azienda, che definisce tempi e modi della formazione in azienda. Altra novità, molto apprezzabile, è la definizione della retribuzione delle ore in cui l’apprendista svolge la formazione nell’istituzione formativa.

 

Viene poi confermata la competenza delle Regioni nella regolamentazione e nella durata dei percorsi di ricerca o alta formazione, o in loro assenza di apposite convezioni stipulate con le università.

 

Cosa cambia per a livello operativo? Il nuovo intervento riformatore, se da un lato poco o nulla incide sull’operatività per quel che riguarda l’apprendistato professionalizzante, dall’altro è degno di nota per l’apprendistato di terzo livello. Questo ultimo, molto flessibile in quanto attivabile con una mera convezione in caso di inerzia delle Regioni, è stato finora inutilizzato per la ritrosia della parti sociali a disciplinarlo. La mancanza di indicazioni per quel che riguardava il piano formativo e ancor maggiormente la retribuzione, sono state senz’altro un deterrente per le aziende. Il Jobs Act, però, permetterebbe ai Consulenti del Lavoro di promuovere questa tipologia lavorativa a contenuto formativo, che rappresenta un’importante strumento per trasferire innovazione all’interno delle aziende, beneficiando non solo degli incentivi connessi a questa tipologia contrattuale ma anche a quelli del Programma Fixo. È senz’altro un’opportunità di per ridurre il divario tra mondo accademico e mondo del lavoro, offrendo la possibilità di poter collaborare con le Università o gli enti di ricerca, disponendo di un personale qualificato senza dover far ricorso a consulenti esterni. A ciò va aggiunta la possibilità di strutturare un percorso formativo che rispecchi i bisogni aziendali.

 

 

Monica Zanotto

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@MonicaZan8

 

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