La guerra dell'acciaio. Stato-privati la formula che può salvare l'Ilva

Le trasformazioni in corso nella produzione mondiale di acciaio possono essere decisive per la sorte dell’Italia. Le grandi banche internazionali da anni hanno acceso i loro riflettori sul problema, preconizzando una riduzione drastica della produzione e quindi dell’occupazione europea. Ma il loro scopo è ridurre la sovraccapacità produttiva mondiale e trarre dalle manovre di fusione e di disintermediazione proprietaria tutti gli utili possibili.
 
Dal punto di vista industriale e produttivo la questione si pone in tutt’altra prospettiva. È in questo contesto che vanno inseriti i casi Ilva e Terni, che la recente intervista del premier Renzi ha posto al centro di un suo ragionamento politico che, di fatto, solleva per la prima volta dopo molto tempo la questione dell’intervento pubblico in economia.
 
Renzi ha posto il problema in modo corretto, senza soffermarsi sull’aspetto operativo: questo è compito dei tecnici. Il punto cruciale è che il premier ha posto la questione dal punto di vista industriale-produttivo e non più finanziario come si è fatto sempre dinanzi a casi simili a partire dalla metà degli anni Novanta.
 
Tuttavia, la questione della sovraccapacità produttiva rimane. Ci si chiede: questa riduzione, è strutturale o congiunturale? E ancora: deve essere subita perché inesorabile, riducendo l’Italia, come vorrebbe McKinsey, a un popolo di camerieri e albergatori oppure occorre agire per difendere ciò che rimane della nostra siderurgia?
 
L’Ilva è appunto questo caso e anche gli acciai speciali della Terni lo sono, pur se più rivolti all’esportazione. Il 70% della produzione Ilva fornisce la nostra industria manifatturiera e questo al di là della variabile congiuntura edilizia che influisce sì su questa produzione, ma non in forma così determinante per i destini del nostro Paese quando pensiamo agli acciai speciali e piani, essenziali per le nostre pmi.
 
I francesi a suo tempo lo compresero benissimo. Essi resero manifeste immediatamente reazioni protezionistiche, con il governo Hollande che dapprima ostacolò l’Opa di Mittal su Accelor e poi giunse a minacciare la nazionalizzazione. Alla fine vinsero le lobby finanziarie, sicché nacque un gruppo da 20 mila dipendenti, il più grande in Europa. La conseguenza fu che il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, fu costretto alle dimissioni mentre i primi segni della ristrutturazione della siderurgia francese già si intravedono con la chiusura di impianti e ondate di licenziamenti.
In Germania i tedeschi applicano un’altra linea. Pensano seriamente alla delocalizzazione dirigendosi verso Cina e India dove già contano circa 20.000 dipendenti e impianti di tutto rispetto. Tanto che anche nella Ruhr i licenziamenti continuano e gli impianti modello di Kredfeld e Bochum soffrono di una malattia di ridimensionamento che pare irreversibile. La crisi dell’auto su scala mondiale segue, del resto, le stesse traiettorie, con i costi di produzione che aumentano a dismisura a cominciare dall’energia per finire con le materie prime (che ora cadono a picco per la conseguenza della crisi mondiale).
 
Ma per fortuna sotto di noi il baratro non si è ancora aperto del tutto. E oggi la siderurgia si configura come il banco di prova di una linea possibile per sviluppare politiche anticicliche, ossia che consentano di resistere alla crisi e poi di superarla. Occorre, però, ripristinare subito lo stato di diritto.
 
L’Ilva, per esemplo, è stata colpita da una serie di violazioni che persino la Corte Suprema d’Europa non ha esitato a condannare. In primis penso alle forme di esproprio effettuate dalla magistratura nei confronti dell’impresa come entità giuridica; poi all’annullamento di fatto dei diritti degli azionisti con una violazione lampante della proprietà, che ha nel commissariamento un atto gravissimo e che deve immediatamente essere rimosso.
 
Si ripropone di fatto il modello che si seguì nel corso delle privatizzazioni degli anni Novanta con gli esiti disastrosi che ne sono seguiti. Sono dunque indispensabili la nazionalizzazione con risarcimento nei confronti della proprietà, ormai fortemente indebolita, e le forme di neo-protezionismo simili a quelle che usano gli Stati Uniti per difendersi dalla concorrenza asiatica. Ricordo soltanto che, dopo la fusione tra Nippon Steel e Sumitomo Metal Industries, l’America ha reagito innalzando, per esempio, al16% le tasse sui tubi di acciaio cinesi.
 
Il piano europeo sulla siderurgia sempre annunciato e mai realizzato deve orientarsi in questo senso. L’alternativa è la progressiva desertificazione non tanto della siderurgia, ma dell’intera industria manifatturiera, meccanica e non, prima nei Paesi del Sud Europa e poi nella stessa Germania. Del resto la vicenda di Piombino è esemplare. Solo gli algerini, che tutto sono meno che favorevoli alle liberalizzazioni, sembrano essere i pretendenti più agguerriti. E se ben si riflette, i più graditi per la forte integrazione esistente tra le nostre economie.
 
Certo, l’llva addensa l’attenzione per i temi ambientali, ma essi sono lo specchio doloroso certo, e terribile, che riflette un’immagine oscura per farne dimenticare un’altra: la distruzione della nostra industria meccanica prima che siderurgica.
 
L’alternativa non è tuttavia una nazionalizzazione alla francese, tipo Regié Nationale, dove lo Stato non lascia nessuno spazio ai privatili modello italiano delle vecchie Partecipazioni Statali ha fatto scuola nel mondo e fa scuola ancora oggi. «Partecipare» infatti richiama all’intervento, a fianco dello Stato, dei privati che operano nelle attività correlate (pensiamo nel nostro caso, per esempio, ad Arvedi o Marcegaglia), così da costituire una sorta di imprese a prodotti correlati che vedano l’integrazione virtuosa tra pubblico e privato.
 
Certo, ciò che di quel modello occorre abbandonare totalmente è il concetto di ente pubblico economico per sposare, invece, il modello tipico della proprietà e della governante anglosassone di tipo statal-tecnocratico: le nuove imprese pubbliche siano gestite da officer, ossia da grand commís d’ètat e non da consigli di amministrazione lottizzati.
 
Insomma, se si deve tornare allo Stato imprenditore, lo si deve fare in forme interamente nuove rispetto al passato, inaugurando ancora una volta un modello virtuoso che si affermi internazionalmente in forma vincente. E convinca l’Europa riluttante e partigiana. La questione dell’acciaio, insomma, è un gioco di specchi in cui si riflette tutto il dramma nazionale italiano, tra Europa e mondo.
 
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La guerra dell'acciaio. Stato-privati la formula che può salvare l'Ilva
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